Birmania – Liberi altri 651 detenuti politici

In by Simone

Una nuova amnistia, a pochi giorni dalla visita del ministro degli Esteri britannico Hague, è l’ultimo tassello di un’apertura sempre più convincente. Stavolta la Birmania sembra fare sul serio, e le sanzioni economiche potrebbero cadere già ad aprile.
Passo dopo passo il governo birmano sta cedendo alle richieste dell’occidente, condizione per la revoca delle sanzioni economiche imposte dalla comunità internazionale. Il 13 gennaio con un’amnistia, la seconda in due settimane, di cui hanno beneficiato anche numerosi prigionieri politici: monaci, dissidenti, leader delle minoranze etniche.

Il giorno prima, il governo guidato dal presidente Thein Sein aveva raggiunto un accordo di cessate-il-fuoco con le milizie indipendentiste dell’Unione Nazionale Karen (Knu), ponendo fine a un conflitto durato 63 anni.

Sono almeno 651 i detenuti rilasciati. “Vogliamo partecipare al processo democratico”, ha detto al mensile Irrawaddy uno dei protagonisti del movimento studentesco del 1988, Nilar Thein, che assieme ai compagni sfidò i generali al potere dal 1962 aprendo la strada alla vittoria elettorale dei democratici due anni dopo, sebbene il Parlamento uscito dalle urne non fu mai convocato per l’intervento dei militari.

Il voto del novembre scorso ha invece segnato l’inizio di un processo di apertura del regime ora guidato dai civili. “Le riforme introdotte dal presidente Thein Sein e da Aung San Suu Kyi sono ciò che abbiamo atteso per tanto tempo. Tuttavia dobbiamo lavorare ancora molto per i nostri compagni rimasti in carcere”, ha aggiunto Thein.

Le prime indiscrezioni sull’amnistia sono circolate durante la visita del ministro degli Esteri britannico, William Hague, nel Paese dei pavoni due settimane fa. Le sanzioni, si disse, potrebbero cadere già ad aprile, se tutti i detenuti politici dovessero essere liberati.

Venerdì le folle accalcate davanti alle carceri hanno accolto il rilascio di leader studenteschi come Min Ko Naing, forse il più importante dei prigionieri tornati liberi; o di U Khun Tun Oo, leader della minoranza Shan; o Khin Nyunt, ex capo dei servizi segreti ed ex primo ministro caduto in disgrazia nel 2004 per contrasti con l’ex capo del regime, il generalissimo Than Shwe; o di cinque giornalisti del’organizzazione in esilio in Norvegia Democratic Voice of Burma.

È però difficile capire quanti siano ancora in carcere, anche perché le stesse organizzazioni di dissenti e per il rispetto dei diritti umani non concordano sui numeri, che variano da 600 a 700 fino ad arrivare a 1.000 nelle stime più negative. Né è chiaro quanto margine di manovra avranno gli attivisti scarcerati per organizzarsi politicamente e confrontarsi con un governo i cui vertici sono ancora legati alle Forze armate.

Non bisogna dimenticare che in passato il regime ha più volte scarcerato i dissidenti per poi arrestarli nuovamente pochi mesi dopo. “L’amnistia fa parte del processo di riconciliazione nazionale", ha sottolineato il portavoce del Ministero dell’Informazione, Ye Htut, “Sappiamo che i gruppi in esilio criticano i cambiamenti che il Paese sta affrontando, ma il popolo e la comunità internazionale ci sta sostenendo nelle riforme. I detrattori non avranno alcun ruolo nel futuro della nazione”.

Il passo successivo verso la revoca delle sanzioni saranno elezioni regolari per le suppletive di aprile, tornata cui parteciperà anche la leader dell’opposizione democratica Aung San Suu Kyi, e l’apertura di trattative con tutte le minoranze etniche.
La serie di conflitti che hanno visto opposto il governo alle varie milizie locali – Karen, Shan, Kachin – sono uno dei fattori più destabilizzanti per i birmani.

Gli esperti concordano nel ritenere una pace duratura una condizione necessaria per risollevare il Paese in cui il reddito medio dei 62 milioni di cittadini è di circa 2 euro al giorno. La soluzione ai conflitti è costata, nel caso dei Karen, la rinuncia a una centrale a carbone da 4.000 megawatt parte di un progetto portuale del valore 6,7 miliardi di euro, che sarebbe dovuta essere costruita dal colosso thailandese Development Pcl e collegato alla Thailandia con una strada che avrebbe dovuto attraversare i territori Karen.

In attesa della revoca delle sanzioni, i grandi gruppi industriali e finanziari scaldano i motori. La banca britannica Standard Chartered, che realizza i due terzi dei propri profitti in Asia, ha detto di essere pronta a tornare una volta caduti i limiti. E se la Chevron ha continuato a lavorare con i generali investendo nei giacimenti di gas e petrolio avuti in concessione prima dell’imposizione delle sanzioni nel 1997, la China National Petroleum sta costruendo un oleodotto che attraverserà tutta la Birmania e porterà il greggio mediorientale in Cina, nella provincia dello Yunnan, senza passare per lo stretto di Malacca.

[Pubblicato su Il Riformista] [Foto credit: theepochtimes.com]