Birmania – L’altra faccia del regime “buono”

In by Simone

Domani ricorre il primo anniversario della ripresa del conflitto tra esercito regolare birmano e il braccio armato del movimento per l’indipendenza dei kachin, una delle 135 minoranze etniche che popolano la Birmania. I vecchi rancori si mischiano ai diritti di sfruttamento delle risorse idriche.
Diciassette anni trascorsi senza lasciare traccia. Tanto era durato il cessate il fuoco nello stato Kachin, nel nord-est della Birmania, prima della scorsa estate, quando le truppe governative hanno ripreso la loro offensiva contro la popolazione locale, cancellando in un sol colpo anche quella parvenza di pace che era stata faticosamente raggiunta.

Il prossimo 9 giugno ricorre il primo anniversario di questo conflitto, una delle più drammatiche per intensità e violenza tra le numerose “guerre minori” portate avanti dalla giunta birmana contro i gruppi minoritari “che non rispondono agli interessi della nazione”.

In questo caso a fronteggiarsi sul campo di battaglia sono il Tatmadaw, l’esercito regolare birmano, e il Kachin indipendence army (Kia), braccio armato della Kachin indipendence organization (Kio).

Scontri a fuoco, imboscate e agguati, però, sono solo la faccia visibile di una lotta portata avanti dai militari con le armi dello stupro, delle sevizie, delle minacce e dei maltrattamenti nei confronti della popolazione civile, in un crescendo di brutalità il cui unico obiettivo sembra ormai essere l’annichilimento totale dell’avversario e il saccheggio dei suoi beni.

In un paese come la Birmania, in cui il governo riconosce l’esistenza di 135 differenti gruppi etnici su una popolazione di poco più di 60 milioni di individui, quello delle minoranze è un problema storico con cui il governo si è sempre dovuto confrontare.

L’etnia di maggioranza, quella dei bamar, rappresenta solo il 68 per cento dei birmani; ad essa si affiancano gli shan, i karen, i rakhine, i kayin, i mon e decine di altri, tra cui i kachin.

La differenze tra questi nuclei sono spesso profonde, come è facilmente verificabile prendendo in mano una cartina geografica del paese e contando i nomi delle differenti regioni in cui è diviso: tutti i principali gruppi hanno un “proprio” stato di riferimento, in cui si concentra la maggioranza dei loro appartenenti.

Da sempre l’atteggiamento della giunta militare nei confronti dei diversi sottogruppi è stato di totale intransigenza. Riconosciute solo sulla carta, queste entità non hanno mai visto tutelati i propri interessi né i tratti distintivi della propria cultura. Totalmente marginalizzate ed economicamente arretrate, molte minoranze portano avanti da decenni una lotta impari contro il governo centrale per ottenere una ristrutturazione in senso federale dello Stato o almeno una qualche forma di concreta autonomia.

Dopo l’inizio di quello che è stato presentato al mondo come il “nuovo corso democratico” avviato dal presidente Thein Sein, la giunta dei generali è riuscita ad avviare e tenere in piedi un dialogo, seppure limitato, con tutte le principali etnie minoritarie.

Gli accordi per il cessate il fuoco firmati dall’esercito, anche se violati e disattesi non infrequentemente, sono riusciti a smorzare le violenze in atto in molte regioni, instaurando una tregua traballante ma comunque necessaria per ogni eventuale passo avanti in direzione di una pace stabile.

L’ultima intesa sottoscritta dai militari risale al 20 maggio, quando Aung Min, ministro delle Ferrovie, si è seduto al tavolo con Yawd Serk, comandante dello Shan state army, per discutere dell’implementazione del cessate il fuoco stabilito a dicembre.

In precedenza il responsabile del dicastero era riuscito a concludere con successo una dozzina di trattative con altrettanti eserciti separatisti, compreso il Karen national liberation army (Knu), forza armata della Karen national union, in guerra dal 1949 con le autorità centrali (una notizia in parte ridimensionata dalle dichiarazioni di David Thackarbaw, vice presidente della Knu ed esponente della sua ala più intransigente, che ha smentito con decisione la firma di un accordo di non belligeranza).

Probabilmente è proprio per la sua abilità di negoziatore che Min si è visto assegnare il compito di riavviare il dialogo anche con l’etnia kachin. Non è detto però che quanto ottenuto nel caso del Kawthoolei, nome con cui i karen indicano la propria nazione, possa essere replicato con il Jingphaw Mungdaw, come i suoi abitanti chiamano lo stato Kachin.

Dietro la ripresa degli scontri nella regione, infatti, si celano le smisurate brame di guadagno dei generali, desiderosi, ora più che in passato in una fase di apertura del paese ai finanziamenti esteri, di sfruttare le enormi ricchezze minerarie e naturali e l’immenso potenziale idroelettrico della regione settentrionale.

Nel passato la minoranza kachin ha già avuto modo di sperimentare ampiamente sulla propria pelle l’ingordigia e l’intolleranza della giunta a cinque stelle. Dopo il cessate il fuoco del 1994, i progetti di sviluppo avviati nel territorio attraverso i finanziamenti del governo centrale hanno portato solo degrado ambientale e sfruttamento, senza alcun miglioramento del tenore di vita degli abitanti.

E sebbene le vittime degli scontri armati si siano notevolmente ridotte, la fine dei combattimenti ha coinciso con l’inizio di un periodo di trasferimenti forzati della popolazione per fare spazio a nuove industrie e infrastrutture, cosicché il numero delle persone costrette ad abbandonare la propria casa e i propri beni invece di diminuire è aumentato a dismisura.

Un’incongruenza sottolineata anche da un recente report del Kachin development networking group, un’organizzazione non governativa attiva nella zona: “L’implementazione dei cosiddetti progetti di sviluppo ha comportato il depauperamento delle risorse naturali della regione, e le condizioni di vita dei residenti anziché migliorare sono peggiorate”.

A lasciare alcune delle cicatrice più profonde sul territorio è stato il disboscamento massiccio portato avanti durante gli anni della “pace”. Nella Hukawng Valley, ad esempio, uno dei degli ultimi rifugi naturali della tigre asiatica, più di 200mila acri di foresta sono stati tagliati e sostituiti con monocolture per la produzione di biocarburanti. Uno scempio che ha colpito anche i villaggi della valle, un centinaio dei quali è stato costretto ad abbandonare la zona.

Non migliore sorte è toccata agli abitanti della cittadina di Hpakant, nel nord dello stato. La fortuna teorica di sorgere sopra enormi giacimenti di giada si è tramutata in un dramma quando le trivellazioni delle compagnie minerarie hanno iniziato a devastare l’ecosistema locale, trasformando le verdi montagne della zona in cumuli di arida polvere.

Qualcuno ha anche pagato con la vita: quando nel 2009 e nel 2010 la regione è stata spazzata da piogge torrenziali, l’acqua proveniente dai fianchi delle alture, non più trattenuta dalla vegetazione, ha sommerso il centro abitato, uccidendo in tutto 70 persone.

Anche il Kachin indipendece army ha avuto la sua parte di responsabilità, avviando a sua volta una serie di progetti che hanno suscitato non poche resistenze tra la popolazione. Nel 1997, per iniziare la costruzione di due centrali idroelettriche sul Mali Creek e sul Dabak River, il Kia firmò un accordo con la compagnia cinese Jinxin, a quel tempo la maggiore impresa di legnami operante nella zona, concedendole diritti per il disboscamento che hanno prodotto danni irreparabili all’ambiente.

E anche se i rappresentanti del Kia si sono sempre battuti per un’equa distribuzione della ricchezza prodotta grazie alle risorse della regione, non sono mancati alti graduati che hanno guardato prima al proprio portafoglio che agli interessi della popolazione.

Per tutte queste ragioni, quasi venti anni di sfruttamento sistematico non potevano essere cancellati con un colpo di spugna. Il cessate il fuoco del 1994 non aveva risolto il problema della guerra, lo aveva solo congelato, dando peraltro modo agli eserciti avversari di accumulare armi e munizioni e rinsaldare i ranghi decimati da decenni di scontri.

Oggi il nuovo grande business che coinvolge lo stato Kachin è quello dell’energia idroelettrica, con immensi progetti di sviluppo che interessano anche la Cina e che hanno scatenato attriti crescenti tra i rappresentanti della comunità kachin e quelli di Naypydaw.

Alcuni esperti fanno notare che le notizie arrivate dalla Birmania nell’ultimo periodo, a cominciare dalla decisione di interrompere la costruzione della diga di Myitsone e arrivando al “siluramento” di Aung Thaung e Tin Aung Myint Oo, funzionari governativi notoriamente “amici” di Pechino, sembrano confermare la volontà di Thein Sein di imprimere una svolta effettiva alla politica seguita fino a questo momento.

Ma il fatto che le ostilità tra il Tatmadaw il Kia siano riesplose l’anno scorso intorno alle dighe Dapein e Shweli non può essere considerato un caso. E neppure deve essere sottovalutata l’evidenza che i cinque tentativi di dialogo avviati dal governo con i rappresentanti kachin nel corso dell’anno passato siano tutti naufragati senza produrre alcun risultato.

Il rancore della minoranza kachin nei confronti della giunta militare è forte e radicato, almeno quanto la volontà dimostrata dai militari di piegare i ribelli con l’uso della forza bruta. Secondo quanto riferito da alcune ong presenti nella regione, dall’inizio del nuovo conflitto sono almeno 70mila i civili sfollati, mentre la popolazione è esposta ad abusi e violenze perpetrati impunemente dai militari (nell’ottobre scorso ha fatto scalpore il report pubblicato dalla Kachin women’s association of Thailand Burma’s covered up war: atrocities against the Kachin people, che denunciava stupri e maltrattamenti su donne e bambini).

Poche settimane fa i leader della Kachin indipendence organization hanno inviato al segretario generale della Nazioni unite una lettera per reclamare ancora una volta un intervento dell’Onu nel Paese.

In precedenza Ban Ki-moon aveva già chiesto di sua iniziativa la possibilità di accedere nella regione per portare aiuti umanitari alla popolazione, sottolineando che “la situazione nello Stato Kachin è in contrasto con la positiva conclusione degli accordi per il cessate il fuoco con tutti gli altri gruppi etnici. Al popolo kachin non dovrebbe più essere negata la possibilità che un cessate il fuoco e un accordo politico portino pace e sviluppo”.

Il tempo per un intervento, però, è sempre più stretto. Secondo quanto riferito dal The Irrawaddy, il 10 maggio scorso lo United nationalities federal council (Unfc), che raccoglie esponenti di 12 delle principali minoranze presenti nel Paese, ha lanciato un ultimatum all’esercito governativo, invitandolo a sospendere le operazioni belliche contro i kachin entro il prossimo 10 giugno. In caso contrario, tutte le altre etnie sono pronte a interrompere il cessate il fuoco siglato con l’esecutivo e a rientrare in guerra.

[Foto credit: ryanlibre.com]

* Paolo Tosatti è laureato in Scienze politiche all’università “La Sapienza” di Roma, dove ha anche conseguito un master in Diritto internazionale, ha studiato giornalismo alla Fondazione internazionale Lelio Basso. Lavora come giornalista nel quotidiano Terra.