Wukan docet

In by Simone

Il China Daily si è recentemente sprecato in elogi per un piccolo villaggio. Il rinnovato interesse dello Stato per le campagne è un modo di rispondere alle domande del mondo rurale, che crescono grazie al ritorno dei lavoratori migranti e ai vecchi quadri di Partito. Il caso di Wukan fa scuola. Se volete conoscere la Città del sole secondo Pechino – o per meglio dire la “comunità armoniosa” – leggete A vision of China’s rural future, articolo pubblicato da China Daily.

Vi si magnifica il già poverissimo villaggio di Yonglian, nella provincia orientale del Jiangsu, presentato come un “insediamento moderno ipermoderno, curato e clinicamente pulito [sic].

Qui infatti, grazie al felice connubio di agricoltura e industria (un’acciaieria che impiega 13mila persone di cui 5mila locali) la popolazione ha un reddito superiore alla media e un mucchio di servizi, in un contesto che per gli standard cinesi è poco meno che multietnico (migranti che provengono da “23 province diverse”).

Tra i servizi, oltre a un centro totalmente rinnovato con “l’ospedale, una scuola – costruita con un sottopasso per la sicurezza dei bambini – e la biblioteca, ci sono extra quali un teatro gratuito che mette in scena diversi spettacoli ogni giorno. Il tè opzionale costa 2 yuan”.

Nel segno del centralismo democratico e della buona gestione, c’è pure “una sala comunale da 380 posti, dove 308 rappresentanti passano risoluzioni politiche con almeno due terzi dei voti. Ognuna delle 3mila famiglie del villaggio ottiene anche una scheda di voto”.

Certo – dice il vicesegretario del Partito locale Wu Huifang – mentre il 96 per cento della popolazione ha già accettato di spostarsi ci sono ancora tre “case chiodo” (vecchie abitazioni i cui occupanti rifiutano di andarsene), ma è un fenomeno residuale.

Yonglian è un villaggio dove “gli unici tetti di paglia sono a beneficio dei turisti. Coprono edifici originali convertiti in negozi in cui beni come liquori, tofu e oggetti di bambù sono prodotti e venduti come ai vecchi tempi”.

L’articolo si conclude con un visionario vice segretario Wu: “Abbiamo sperimentato questo modello, ma non è nostro. Può essere ripetuto in tutte le campagne cinesi”.

Yonglian è un’utopia realizzata che il governo sventola a fronte di segnali che arrivano dalle campagne.

Bisogna tornare a Wukan, il villaggio del Guangdong che ha inaugurato un nuovo modo di lottare (e vincere) contro la sacra alleanza tra palazzinari e funzionari locali, per comprenderlo: da quell’episodio in poi, gli “incidenti” che si verificano nella campagne no sono più derubricabili come semplice jacquerie contadina.

Ou Ning, poliedrico operatore culturale cinese che ultimamente si è focalizzato sul mondo rurale e ha fondato addirittura una comune di intellettuali nell’Anhui, ha di recente scritto un brillante articolo proprio sull’episodio di Wukan.

A suo avviso, l’elemento nuovo, segno di una “pacifica rivoluzione” possibile, è costituito dalla compresenza nella lotta di giovani migranti tornati al villaggio dopo l’esperienza in città e di vecchi quadri di Partito, personaggi ormai in pensione, che riprendono in mano il filo rosso egualitarista dei tempi di Mao.

Ne scaturisce una potenza inedita: l’utilizzo di strumenti tecnologici, da un lato (la rete, i video); la capacità di mediare, il guanxi (la rete relazionale), la conoscenza degli stessi meccanismi interni e delle formule retoriche del potere, dall’altro.

Hanno formato un gruppo chiamato ‘L’ardente Corpo dei Giovani di Wukan’, hanno discusso la natura abusiva delle requisizioni di terreni, hanno lamentato il fatto che la commissione del villaggio non aveva tenuto elezioni da quarantuno anni, si sono scagliati contro la mancanza di trasparenza negli affari di governo e della finanza pubblica, e hanno organizzato una petizione alle autorità superiori per indirizzare le proprie rimostranze.

Quando il confitto è esploso, sono tornati a casa uno dopo l’altro e sono diventati il nucleo propulsivo delle proteste.

Hanno registrato account sui social media per fornire notizie aggiornate di quanto stava accadendo in Wukan.

Hanno fatto video e li hanno diffusi online su ampia scala. Hanno parlato ai giornalisti locali e internazionali.

Quando il paese era sotto assedio, hanno anche organizzato spontaneamente una squadra di guardie di sicurezza per mantenere l’ordine.

Questi rimpatriati erano già profondamente legati alla loro terra natale, ma le conoscenze e le competenze che avevano acquisito lontano da casa erano ciò che ha dato coordinamento e potenza alle proteste.

Hanno fatto di Wukan un modello per l’organizzazione dei movimenti sociali a livello di villaggio”.

L’uomo eletto capovillaggio è lo stimato e fidato leader delle proteste Lin Zuluan. Lin, 65 anni, membro del Partito comunista e ex soldato, aveva servito come funzionario a Wukan e nella vicina cittadina di Donghai prima di lasciare la burocrazia per entrare negli affari.

Per molti versi assomiglia a un membro della piccola nobiltà rurale tradizionale. La sua appartenenza al partito e gli anni trascorsi come funzionario hanno garantito che sapesse come aggirare il sistema politico cinese.

Anche se è da tempo tornato a casa per andare in pensione, ha sempre mantenuto una sorta di legame emotivo al regime. Gli anni nel business gli hanno dato una rete di relazioni sociali che hanno permesso che la sua visione del mondo non diventasse stantia.

Queste sono le qualità che oggi, nelle campagne cinesi, tendono a conferire autorità e dare un sostegno popolare, e che hanno permesso a Lin di preservare la razionalità dei manifestanti e di fare le cose per bene.

La partecipazione di Lin ha dimostrato il ruolo enorme che figure assimilabili alla ‘gentry’ possono avere nel garantire il successo dei tentativi di autogoverno delle campagne”.

Un modo di fare politica senza richiamarsi alla politica, perché in caso contrario si configurerebbe un attentato alla struttura fondamentale dello Stato: “Gli appelli degli abitanti del villaggio di Wukan nascono dalla preoccupazione per il proprio sostentamento, non da qualche forma di astio contro il partito o il sistema politico cinese”.

Un rivoluzione dal basso in cui molto concretamente sono gli interessi immediati – questi sì riconosciuti e tutelati, almeno sulla carta – a fare da leva per la mobilitazione.

Che sfugge al controllo dispiegato “tradizionalmente” (ne caso di Wukan, fu l’assedio al villaggio da parte delle forze di sicurezza).
E nel momento in cui il villaggio chiede nuove elezioni – e le ottiene – per fare piazza pulita dei funzionari corrotti, l’impolitico si fa politico.


* Gabriele Battaglia è fondamentalmente interessato a quattro cose: i viaggi, l’Oriente, la Rivoluzione e il Milan. Fare il reporter è il miglior modo per tenere insieme le prime tre, per la quarta si può sempre tornare a Milano ogni due settimane. Lavora nella redazione di Peace Reporter / E-il mensile finché lo sopportano.

[Foto Credits: chinamedia.com]