Birmania – Con tutte quelle bollicine…

In by Simone

La revoca delle sanzioni Usa apre le porte della Birmania alla Coca Cola. A temere sono soprattutto i produttori di bevande locali che non potranno più contare sulla competitività dei loro prezzi e si dovranno confrontare con il colosso mondiale del settore.

Messi davanti alla scelta, cosa preferiranno i birmani tra la Coca Cola e la locale Happy Star? È notizia delle scorse settimane la decisione della società di Atlanta di tornare a fare affari in Birmania dopo sessant’anni, cancellandola dalla striminzita lista dei Paesi con cui il colosso delle bollicine non ha rapporti commerciali, ora limitata a Cuba e Corea del Nord.

Il ritorno è stato possibile per la revoca di alcune delle sanzioni statunitensi contro il regime in vigore dagli anni Novanta e che ora, trascorso un anno dall’inizio del corso riformatore impresso al Paese dal presidente Thein Sein, Washington ha iniziato ad alleggerire.

Chi non gradirà l’arrivo di lattine e bottigliette del più grande produttore di bevande al mondo potrebbero però essere le aziende locali che negli anni dell’autarchia si erano ritagliate la propria fetta di mercato e profitto.

Nonostante le sanzioni i prodotti della società statunitense non sono in realtà mai mancati. Come documentato da Patrick Winn sul Global Post, alle mancanza di bevande “made in Burma” sopperivano la Coca Cola prodotta in Thailandia o la Sprite prodotta a Singapore, fatte poi entrare nel Paese.

Le lattine “d’importazione”, scrive il mensile Irrawaddy possono però arrivare a costare circa mille kyat, (un euro), l’equivalente di un’intera giornata lavorativa. Per una bibita locale come la Happy Star o Sweety bastano al contrario 100 kyat.

Ma se per il momento il consumatore guarda più al prezzo che alla marca, con la possibilità di produrre in Birmania anche il costo della Coca Cola è destinato a scendere. Prospettiva che gli industriali locali guardano con timore.

Quando saranno qui saranno capaci di vendere allo stesso prezzo dei locali o anche a meno”, ha spiegato a Irrawaddy il direttore commerciale di Happy Soft Drink, Nyi Nyi.

In passato i produttori birmani hanno beneficiato della presenza straniera e, a loro modo, delle sanzioni. Basti pensare a quando, dopo il 1997 con gli appelli statunitensi al boicottaggio del regime, la Pepsi abbandonando il Paese lasciò ai locali campo libero per assumere i suoi migliori dipendenti.

Ora si aprono quindi tre strade: vendere tutto al più forte, collaborare con la Coca Cola o cercare di competere.

Da parte sua il colosso Usa, già sotto pressione per il trattamento dei dipendenti in Paesi come ad esempio la Colombia, dovrà rassicurare i consumatori nel resto del mondo sul rispetto degli standard etici.

Ma l’orizzonte birmano, definito a gennaio dalla Banca mondiale “la nuova frontiera asiatica”, alletta i grandi gruppi Usa. In 38 hanno partecipato lunedì scorso a un incontro a Rangoon organizzato da esperti della Casa bianca, passando dal settore finanziario all’energia, dal manifatturiero al aerospaziale.

L’economia birmana è stata a lungo chiusa”, ha detto in conferenza stampa France Zwening, dell’Us-Asean Business Council, “il risultato è che spesso la gente non sa come rapportarsi al mondo degli affari nel 21esimo secolo. Le società statunitensi devono capire che questo è un Paese difficile”.

Le aziende statunitensi chiedono riforme al sistema legale e finanziario che facilitino gli investimenti. La prima a lanciarsi nel mercato è stata per adesso la General Electric, con un contratto da 2 milioni di dollari per le forniture mediche in due ospedali di Rangoon.

[Foto credit: flickrhivemind.net]