Asia-Files e 9/11: La soluzione al terrorismo di Haruhiro Shiratori

In by Simone

La storia di Haruhiro Shiratori, padre di una delle vittime dell’11 settembre. Dopo peripezie tragicomiche è riuscito a dare un senso al suo dolore aiutando i giovani di Kabul.
Haruhiro Shiratori domenica 11 tornerà a New York.
Suo figlio Atsushi lavorava al piano 104 di una delle Twin Towers, aveva 36 anni.
Dieci anni dopo, quel vuoto non è colmato né forse mai lo sarà, ma è stato riempito di senso dall’azione infaticabile e costruttiva di Haruhiro che ha unito – e non virtualmente – punti lontani geograficamente: New York, Tokyo, Kabul.
È una storia che sembra un film. Invece ne è stato tratto un documentario.
In pace i figli seppelliscono i padri, mentre in guerra sono i padri a seppellire i figli, diceva Erodoto. Le guerre, però, a volte cancellano anche i corpi e lasciano i padri ad interrogarsi.
Se Atsushi si trovava lì, non era forse anche una sua responsabilità? Haruhiro, proprietario di un ristorante yakitori a Tokyo, oggi settantenne, spesso aveva parlato al figlio del desiderio di trasferirsi negli Usa, in quello che vedeva come il paese delle possibilità e degli ampi spazi. Atsushi l’aveva fatto: aveva lasciato il Giappone per laurearsi all’Università di California e, nel 2001, stava realizzando il suo “American dream”, e indirettamente anche quello del padre.
All’indomani degli attacchi Haruhiro Shiratori partì per New York due volte: la prima per cercare suo figlio tra i feriti ricoverati negli ospedali cittadini; la seconda per recuperare i pochi resti di Atsushi, allorché, tre mesi dopo la catastrofe, 40 centimetri di una gamba erano stati identificati e ricollegati al giovane giapponese. Quelle ceneri sono contenute in un’urna vicina al letto del padre e verranno disperse con quelle di Haruhiro alla sua morte.
Poi la ricostruzione a New York e la caccia a Bin Laden senza speranza.

Haruhiro ha cercato allora di dare un significato alla frustrazione e alla perdita. Nel 2004, con uno di quei gesti disperati e forse incomprensibili per chi non ha vissuto vicende analoghe – e con testardaggine tutta giapponese – parte per il Pakistan, dove si ferma una settimana guidando per le località più sperdute. Porta con sé una lettera, tradotta in farsi e in inglese, e indirizzata a Bin Laden. La lettera contiene un invito a Bin Laden a discutere sulle ragioni dell’attentato.
Sarebbe comico se non fosse tragico.
“Chiaramente non c’era alcuna possibilità di incontrarlo, nemmeno la Cia sapeva dove si trovasse”, ammette Haruhiro, “ma io volevo chiedergli il perché del suo atto. Per questo partii”. Dal Pakistan Haruhiro decide di entrare in Afghanistan, a Kabul. Negli occhi le immagini dei ragazzini visti in tv che inneggiano alla jihad con le armi in mano.
L’impatto con Kabul è scioccante: devastazione, povertà, carri armati a presidiare le strade. Per Haruhiro il ricordo più assimilabile è Tokyo dopo i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale. Parla con la gente del posto, si rende conto di come la catena di sangue difficilmente potrà rompersi: “Mi domandai cosa ne sarebbe stato di quei bambini una volta divenuti adulti. Sarebbero cresciuti con lo stesso feroce odio per gli Stati Uniti? Un altro 11 settembre potrebbe accadere di nuovo?”.

La morte di suo figlio lo ha condotto fino a Kabul e Haruhiro decide di non fermarsi. Grazie al fondo di compensazione per le vittime dell’11 settembre, ad altre risorse di Atsushi e a una campagna in giro per il Giappone e gli Usa per raccogliere sostegno – crea un fondo destinato alla ricostruzione e in particolare all’aiuto dei bambini afghani – perché, dice, “questo sarebbe stato il desiderio di Atsushi”. Vuole costruire un centro culturale in memoria di Atsushi. a Kabul, comprensivo di una scuola, luoghi di aggregazione, un serbatoio di acqua e un giardino con 911 ciliegi.
Il progetto incontra difficoltà burocratiche e pratiche enormi, ma non si è fermato: dal 2004 a oggi Haruhiro è stato in Afghanistan otto volte, seguito dal regista canadese Philippe Baylaucq che su di lui ha realizzato un documentario uscito nel 2008, A dream for Kabul. Haruhiro ormai parla meglio il persiano dell’inglese, e ogni volta che incontra i suoi bambini afghani non può che essere felice e speranzoso. Nonostante tutto.
Perché, come recita un proverbio cinese:“Se pianifichi per un anno, pianta del riso; se pianifichi per 10 anni, pianta degli alberi; se pianifichi per 100 anni, educa i tuoi bambini”.

 * Benedetta Fallucchi, dopo una parentesi di attività nel mondo editoriale, si è dedicata al giornalismo. Collabora con alcune testate italiane e lavora stabilmente presso la sede di corrispondenza romana dello «Yomiuri Shimbun», il maggiore quotidiano giapponese (e del mondo: ben 14 milioni di copie giornaliere).

[Photo credit: http://www.informactionfilms.com/]