Il Drago e il Leone. La Cina al Festival del cinema di Venezia e la tradizione dei “film a sorpresa”

In by Simone

Leone d’argento per la migliore regia a Cai Shangjun  e Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile a Deanie Yip, protagonista di Tao Jie.

Quest’anno più che mai la Cina si presenta al Festival del cinema di Venezia con una cinematografia nazionale i cui contorni – geografici – sono di difficile definizione e che è fatto attraverso modalità produttive diverse tra loro. Si tratta infatti di un mercato della produzione cinematografica che vede sempre più spesso la partecipazione e la cooperazione di diversi attori afferenti alle diverse aree geografiche delle Tre Cine (Rpc, Hong Kong e Taiwan), che insieme concorrono a creare un cinema definibile come “iper-nazionale”, e identificabile nella sola indistinguibile etichetta di “cinema di lingua cinese”, huayu dianying. Un mercato multiforme che trova capitali ed esperienza a Hong Kong e un pubblico numericamente rilevante e un numero di sale in costante crescita nella Cina continentale.

Grazie soprattutto alla direzione del sinofilo – e sinologo – Marco Müller, ogni edizione del Festival di Venezia non ha mai mancato di proporre diversi tipi di film di produzione sinofona. E, soprattutto negli ultimi, il Festival è stato un’importante vetrina per autori considerati indipendenti, o comunque promotori di un cinema artistico e meno commerciale, lontano dal mainstream nazionale ufficiale, e per questo più vicino a un’idea di cinema propria dei festival  internazionali.
Tra questi ultimi spiccano Jia Zhangke, regista indipendente il cui Still Life (storia dello spaesamento di chi ha visto le proprie case inghiottite dalle acque dopo la costruzione della diga delle Tre gole) ha ottenuto il Leone d’oro nel 2006 e Wang Bing, autore di documentari importanti per contenuti e, sopratutto, dimensioni (famoso il suo Tie Xi Qu: West of the Tracks, la cui durata sfiora le dieci ore). Jia ha trovato sempre spazio nella rassegna, e anche quest’anno partecipa come presidente della giuria della rassegna Orizzonti, mentre Wang, lo scorso anno aveva presentato il suo primo film  “a soggetto” di produzione francese,The Ditch.

Sia quest’ultimo che Still Life nel 2006 sono stati presentati a rassegna iniziata come “film a sorpresa”. Questa formula inusuale è stata utilizzata anche quest’anno per il film di produzione inese (Hong Kong – PRC): Renshan renhai (People Mountain People Sea) di Cai Shangjun. Il suo film, che forse è riuscito a raggiungere il Lido nonostante i cambiamenti imposti dalla censura proprio grazie all’effetto “a sorpresa”, ha attirato una l’attenzione su una Cina diversa  – e forse più vero – rispetto alle altre pellicole in concorso. Inoltre, un piccolo incidente che ha interrotto la proiezione e l’annullamento della conferenza stampa hanno avvolto questo film di ancor maggiore mistero.
Basato su una storia vera di una vendetta famigliare e ambientato nella lontana campagna cinese, tra miniere illegali e zone arretrate, Renshan renhai è il quarto film di lingua cinese a entrare nella sezione competitiva principale del festival, ma l’unico il cui regista proviene dalla Rpc.

Gli altri tre film vedono infatti la regia di autori di Hong Kong e Taiwan: Johnnie To, Ann Hui e Te-sheng Wei (Wei Desheng). Il primo è un nome già conosciuto in Italia per raffinati “gangster movies” nei quali tinte noir fanno risaltare una grande umanità di personaggi e una varietà di storie che pochi registi di Hong Kong riescono a raccontare. Johnnie To è un maestro nell’usare il noir come un linguaggio universale e aperto a ogni possibile contaminazione, e nel creare un cinema post-moderno fatto di citazioni e sensazioni. Forse la sua originalità viene dal fatto che è anche produttore dei stessi suoi film attraverso la sua casa di produzione Milkyway Image, il che gli assicura una certa autonomia narrativa e stilistica.
Quest’ultimo lavoro, Duo Mingjin (Life Without Principle), narra l’incontro di personaggi lontani tra loro ma uniti da un bisogno di soldi che li porterà a scavalcare la propria morale e a rivelare allo spettatore l’ansia e le tensioni che opprimono la società.
Anche Ann Hui è una veterana del cinema cantonese, già apprezzata in festival occidentali sebbene si sia distinta meno di molti suoi con-“nazionali” specializzati in cinema “di genere” e d’azione. Il suo è un cinema umorale, ma di stampo realista. Tao Jie (A Simple Life, sarà distribuito in Italia da Tucker Film), tra i candidati favoriti al Leone d’oro, porta sullo schermo una storia vera, qui interpretata dalla star Andy Lau nei panni di un giovane rampollo di una grande famiglia legato profondamente alla donna di servizio che lo ha allevato e ora anziana.
L’altro film in concorso proviene da Taiwan, ed è stato accompagnato da polemiche ancor prima dell’inizio della rassegna. Saideke Balai (Warriors Of The Rainbow: Seediq Bale), è  stato infatti classificato dal Festival come Taiwan-Cina, provocando le proteste del governo taiwanese che ne ha rivendicato la paternità esclusiva, senza cioè alcuna co-produzione da parte della Cina. Film di lunga durata racconta una pagina di storia poco conosciuta: le rivolte antigiapponesi delle popolazioni indigene dell’isola di Taiwan. Per questo suo approccio alla storia dell’isola (o alla storia nazionale, secondo il punto di vista del governo di Taipei) il regista Wei Desheng è considerato il nuovo Hou Hsiao-hsien il cui A City Of Sadness vinse il Leone d’oro nel 1989 consacrandolo maestro del cinema mondiale. A Hong Kong, il regista John Woo sta già supervisionando un montaggio più breve e adatto alla distribuzione nelle sale.

Ma non sono mancati film cinesi anche nelle rassegne minori. Fuori Concorso è stato presentato Baishe Chuanshuo (The Sorcerer and the White Snake, o anche titolato in inglese It’s Love) di Tony Ching (Ching Shiu-hsiu), regista cantonese autore, tra gli altri, della trilogia di culto di A Chinese Ghost Story. Baishe Chuanshuo è una storia d’amore della tradizione culturale pan-cinese del serpente bianco e uscirà a giorni nelle sale cinesi, grazie anche alla coproduzione Honk Kong e Rpc che permette agli autori cantonesi di trovare un pubblico vastissimo senza dover rientrare nelle limitazioni alle importazioni imposte alle pellicole straniere.
Un altro film di ambientazione storico-tradizionale e pieno di azione e arti marziali (ma meno effetti digitali) è Wokou de Zongji (The Sword Identity) di Xu Haofeng, campione di arti marziali e autore di romanzi wu xia di successo. In questo film Xu porta sullo schermo qualcosa dei suoi romanzi, ma soprattutto è l’unico film a Venezia a essere prodotto unicamente nella Rpc. Fatto paradossale se si pensa che il wu xia è diventato celebre nel mondo grazie al cinema di Hong Kong.
Infine un nome che in festival internazionali e soprattutto a Cannes è passato spesso. Lou Ye, presenta nella sezione autonoma delle Giornate degli Autori il suo ultimo Love and Bruises. Lou è un regista per certi versi non lontano dalla generazione del più famoso Jia Zhangke, che sa unire ricerca visiva e indipendenza nella produzione. Questi due fattori gli hanno reso all’estero, e soprattutto in Francia, giudizi favorevoli e – ancor più importante – supporto produttivo. Con questo Love and Bruises Lou sembra allontanarsi ancora di più dalla Cina. Ma con un cast in maggioranza straniero, ma non per questo abbandona riesce comunque a proseguire i temi distintivi della sua poetica: amore ossessivo e sessualità esplicita.

Alla premiazione, data anche la presenza consistente, qualche premio arriva. Renshan renhai di Cai Shangjun  ottiene il Leone d’argento per la migliore regia, riconoscimento che conferma come in festival come Venezia i film maggiormente apprezzati siano quelli che riescono a rappresentare la realtà in modo nuovo e coraggioso, soprattutto quando si tratta di un mondo così “lontano” come quello cinese. Un riconoscimento che conferma come i film “a sorpresa” siano alla fine fortunati, come accaduto a Jia Zhangke nel 2006. Infine Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile va a Deanie Yip, protagonista di Tao Jie, che sebbene tra i favoriti per il Leone d’oro (andato a Faust del russo Aleksander Sukorov) non rimane a mani vuote.

* Edoardo Gagliardi – Ha appena concluso il dottorato di ricerca  in cinema cinese contemporaneo presso la Facoltà di Studi Orientali dell’ Università di Roma, la Sapienza. Ha collaborato a riviste e siti internet come Rockerilla, Film, Caltanet, ecc. Vive a Pechino.