Alla moschea di Taipei, solidarietà con il popolo palestinese

In Asia Orientale, Economia, Politica e Società by Lorenzo Lamperti

L’iniziativa dal basso. Il governo di Taiwan schierato con decisione con Tel Aviv. Gli organizzatori: “Hamas non rappresenta tutti i musulmani, né tutti i palestinesi”. Il racconto da Taipei

“Se c’è un luogo che più di altri dovrebbe capire la situazione della Palestina, questo dovrebbe essere Taiwan”. A dirlo è Malika, di fronte all’ingresso della Grande moschea di Taipei. È una giovane musulmana taiwanese, volontaria presso la più grande e antica (è stata aperta nel 1947) moschea dell’isola, dove vivono poco più di 300 mila musulmani, la maggior parte stranieri. Siamo nel centralissimo distretto di Da’an. A poche decine di metri di distanza sorgono anche un tempio taoista e una chiesa cattolica. Malika è anche responsabile dei social media e ha partecipato all’organizzazione dell’evento di ieri in solidarietà per i palestinesi. Un piccolo bazar solidale con cucina halal e altri prodotti d’artigianato provenienti da Marocco, Iran, India, Myanmar e la provincia cinese dello Yunnan.

Ogni autunno la moschea organizza “giornate aperte” e per la prima volta dopo gli anni del Covid si è tornati a un evento che ha soprattutto obiettivi culturali. Il momento dell’iniziativa, a due settimane dagli attacchi di Hamas in Israele, ha causato qualche polemica sui social. Il governo taiwanese, d’altronde, si è schierato con decisione con Tel Aviv. Al di là della contingenza, non una sorpresa. L’amministrazione di Tsai ing-wen aveva appoggiato anche il piano sul Medio oriente di Donald Trump. Ci sono ragioni politiche e storiche: l’allineamento alla politica estera degli Stati uniti, la necessità di mostrarsi in linea con le “democrazie liberali”, il sostegno cinese alla soluzione dei due stati, l’assenza di relazioni ufficiali coi paesi della regione.

“Dal governo taiwanese auspichiamo una posizione più imparziale, senza seguire in maniera cieca le posizioni di altri paesi che, seppur amici, hanno loro interessi”, dice Malika. Tra i presenti molti musulmani, taiwanesi e stranieri, ma anche curiosi. Nessuno giustifica le azioni di Hamas: “L’Islam non è terrorismo, quell’organizzazione non rappresenta tutti i musulmani o tutti i palestinesi”, dice Muhammad, dottorando del Kashmir all’università di Taipei, mentre un gruppo di bambini gioca a calcio di fronte alla moschea. “I taiwanesi dovrebbero capire i palestinesi, visto che ne condividono in qualche modo i problemi legati al riconoscimento internazionale”, ripetono in molti. “Purtroppo i media principali raccontano la situazione senza contesto. La cosa più urgente per noi è far capire che bisognerebbe essere solidali con tutte le vittime, sia israeliane sia palestinesi”, aggiunge Malika. “I taiwanesi sono solitamente molto amichevoli, ma sul mondo musulmano reggono molti stereotipi. Aprendo le porte della moschea più persone possono per una volta assumere una prospettiva diversa”, conclude mentre sta per iniziare la preghiera del tramonto.

Il governo intanto cerca rassicurazioni da Washington. Come già accaduto per l’Ucraina, il ministero della Difesa ha approntato una task force per studiare il conflitto. I pareri degli esperti sono discordanti sul fatto che Taiwan possa apprendere qualcosa per difendersi da un’eventuale azione militare di Pechino. Il tema più concreto potrebbe riguardare le armi. A Taipei c’è chi teme che la promessa di assistenza a Israele, dopo quella in Ucraina, possa causare problemi alle spedizioni del Pentagono. Joe Biden prova a tranquillizzare con la richiesta al Congresso di oltre 105 miliardi di dollari per la difesa: 61 per l’Ucraina, 14,3 miliardi per Israele, 2 per Taiwan e l’Indo-Pacifico. Ma al di là degli annunci contano i tempi. Prima ancora dell’attacco di Hamas, il viceministro della Difesa Hsu Yen-pu aveva chiesto agli Usa di accelerare l’invio dei pacchetti militari acquistati da Taipei, diversi dei quali in ritardo.

Di Lorenzo Lamperti

[Pubblicato su il Manifesto]