Per spiegare la sua chiave di lettura, Giannuli parte da un’analisi delle fonti: “Com’è già stato detto da più parti, la rete informativa forata da Wikileaks non è sicuramente una rete di primo livello. Si tratta di report riservati, non destinati alla pubblicazione, ma che non riguardano operazioni o decisioni. Tutte queste comunicazioni marciano su diversi livelli; un livello più basso è quello che possiamo definire ‘commerciale’, un canale sul quale viaggiano buona parte delle comunicazioni diplomatiche o bancarie. Un’altra parte è quella che viaggia su reti militari, dove la tecnologia è tutt’altra, molto più sofisticata e molto più difficile da violare. Però, anche bucare questa rete di livello relativamente basso non è certo facile, perché si tratta di sistemi con password cifrate, che in più richiedono password differenti in entrata e in uscita. Insomma, questa è un’operazione che richiede i mezzi a disposizione dei servizi d’informazione di uno Stato. Quello che è stato pubblicato finora rappresenta un antipasto; molto più preoccupante è quello che potrebbe uscire, quello che secondo lo stesso Assange uscirà”.
Julian Assange, tuttora rinchiuso in una prigione britannica, aveva dichiarato che presto Wikileaks pubblicherà i documenti riservati di una grande banca: “Solo allora avremo un quadro più chiaro. Se Assange pubblicasse, ad esempio, informazioni sullo stato di insolvenza di un grande istituto di credito, questo potrebbe portare all’assalto agli sportelli da parte dei creditori e ad una paralisi del sistema interbancario, perché nessuno si fiderebbe più di nessuno. Ecco, in uno scenario di questo tipo, Wikileaks sarebbe capace di provocare una crisi economica. Se al terremoto già scoppiato, che ha causato agli USA imbarazzo diplomatico e isolamento, seguisse un siluro economico, ecco che allora tutta la vicenda assumerebbe una luce diversa. Se non dovesse succedere, abbiamo assisito all’esplosione di alcuni potenti colpi d’avvertimento”. Secondo Giannuli, il caso Wikileaks è una conseguenza della crisi economica scoppiata nel 2008: “La mia impressione è che c’è un pezzo della crisi che non è stato raccontato, ed è molto più drammatico di quanto non si sospetti. Inoltre, la crisi ha creato nelle relazioni internazionali una superficie d’attrito molto più forte di quanto gli stessi americani non credessero. L’elemento che percepiamo più facilmente è quello della guerra valutaria, ma non è l’unico”.
Da mesi e mesi gli USA attaccano la Cina, accusandola di applicare allo yuan un tasso di cambio inferiore rispetto al reale valore della moneta per garantirsi un vantaggio sleale nell’export; ma mentre Pechino ribatte che una rivalutazione repentina della sua valuta causerebbe un’ondata di chiusure di fabbriche e disoccupazione, la politica cinese ha causato una serie di svalutazioni competitive in altri paesi: uno dopo l’altro, Giappone, Corea del Sud, Thailandia, India e Brasile, sono intervenuti sulla propria divisa. Quella per molti -nonostante la ritrosia del Fondo Monetario Internazionale a definirla tale- è una “guerra valutaria”, ha raggiunto il culmine a novembre con la mossa della FED: un alleggerimento quantitativo da 600 miliardi di dollari, una manovra per ridare competitività all’esangue economia americana tramite la stampa di nuova moneta, l’acquisto di titoli di Stato USA e una svalutazione del dollaro. Ogni paese, insomma, combatte con le armi a sua disposizione, e agli occhi cinesi la manovra americana è solo un’altra forma di svalutazione competitiva, con due aggravanti: importa inflazione verso la Cina, e diminuisce il valore del debito pubblico USA, di cui il Dragone è il primo detentore.
Secondo Giannuli, il cuore del problema va rintracciato proprio nel ruolo di un dollaro ormai inadeguato a svolgere il ruolo di valuta di riferimento negli scambi internazionali: “Gli americani hanno dato prova di una sostanziale irragionevolezza e non hanno colto il messaggio del 18 giugno 2009, quando la riunione dei paesi BRIC decise di aiutare gli ‘amici statunitensi’ ad uscire dall’impasse generata dalla crisi, ma chiese anche di iniziare a preparare l’uscita dal Dollar Standard, il sistema che pone il dollaro come principale valuta di riserva. Si trattava di una posizione negoziale, che passava attraverso l’idea di sostituire gradualmente al dollaro i Diritti Speciali di Prelievo, moneta ‘virtuale’ basata su un paniere di molte valute; ma non è stata neanche presa in considerazione. Con quale faccia, allora, ci si può poi presentare dai cinesi a chiedere la rivalutazione dello yuan mentre si sta continuando a stampare moneta?”.
Ecco allora che il caso Wikileaks potrebbe essere interpretato da un punto di vista più ampio: “Se ipotizziamo che qualcuno abbia dato un’imbeccata ad Assange, fornendogli i file riservati, le due ipotesi privilegiate restano la pista interna, variamente mescolata con un filone israeliano, o la pista cinese. Un residuo di ipotesi russa può sempre esserci, ma non andrei oltre queste possibilità. Nel primo caso, si è trattato di una fazione interna alla quale non garbano certe posizioni dell’attuale politica estera USA, ma in questo caso non assisteremo a un ‘Wikileaks atto secondo’, con l’attacco alle banche. Nel secondo caso, la Cina e qualche altro paese potrebbero aver scelto diverse armi, tra cui quella informativa, per far capire agli Stati Uniti che non possono cancellare gli effetti della crisi del 2008 e continuare a utilizzare il dollaro per controllare i mercati globali”.
Nel 1985 gli USA convinsero il Giappone a rivalutare lo yen per riequilibrare la bilancia commerciale tra le due nazioni e attenuare le tensioni che si erano create sui mercati mondiali; ma il 2010 non è il 1985, e Pechino non è Tokyo: “I rapporti non sono più gli stessi perché non c’è più l’Unione Sovietica, non c’è più un sistema bipolare, tutti sono più liberi, più sciolti, e ogni nazione va per i fatti propri”, spiega Giannuli. “Non siamo nel 1985, perché allora si pagavano gli effetti della non convertibilità voluta da Richard Nixon, ma la crisi del 2008 ha lasciato ferite molto più profonde. La Cina non è il Giappone; è un paese molto più grosso, con molti più squilibri interni, ma anche molto più schierato militarmente. Inoltre non c’è più una divisione Cina-Russia: permangono, com’è ovvio, delle differenze, ma queste due potenze hanno anche degli interessi comuni. Gli USA devono prendere atto che sono successe molte cose, e la crisi del 2008 li ha indeboliti molto di più di quanto non si voglia ammettere. I numeri del debito sono tali che non ci si può permettere il lusso di andare dai cinesi e chiedere di rivalutare . Ma soprattutto, nell’85 gli USA erano ancora la prima potenza industriale del mondo. Adesso, tutto è mutato, e Wikileaks potrebbe essere solo un’arma da impiegare in una guerra asimmetrica a tutto campo”.
[Pubblicato su AGICHINA24 il 15 dicembre 2010 © Riproduzione riservata]