Al fast food della tragedia: il Nepal sulla stampa italiana

In Uncategorized by Gabriele Battaglia

Come è stato raccontato il disastro in Nepal dalla stampa italiana? Il ciclo è sempre lo stesso: dalla breaking news ai racconti di "miracoli" e alle esperienze dei superstiti (meglio se connazionali). Un ciclo che sembra sempre di più imprigionato in logiche di mercato. A poco più di una settimana dal terremoto in Nepal la parabola dell’informazione italiana sul disastro comincia a prendere una direzione discendente, compiendo il ciclo di notiziabilità al quale ogni giornalista in Italia – compreso chi scrive qui – deve attenersi per poter essere pubblicato e, con un po’ di fortuna, magari pure pagato.

Siccome le lamentele sull’informazione scadente italiana sono all’ordine del giorno, e siccome l’informazione oggi è un prodotto prima che un servizio, proviamo a decostruire e analizzare i vari stadi del racconto del terremoto nepalese in Italia, tenendo a mente che nulla, nell’informazione, è fatto per caso.

Il racconto di un disastro, secondo la mia minima esperienza anagrafica nei ruoli di lettore prima e cronista poi, in Italia generalmente ha uno sviluppo per gradi. Provo a dividerlo in punti qui sotto, utilizzando il Nepal come un case study.

Primo giorno – La breaking news

Tutto il mondo apprende da Twitter del terremoto in Nepal, le agenzie riprendono le informazioni di altre agenzie che sono sul posto, iniziano a circolare numeri ufficiosi e foto di persone che in Nepal ci vivono e, finché non saltano le linee telefoniche, riescono ad accedere a internet e postare i loro scatti fatti dal cellulare.

La sera, il giornalista in Italia deve fare un collage di tutte queste informazioni, generalmente contenendo abbastanza le frasi altisonanti come "tragedia mai vista", "ecatombe", "disperazione", perché l’effetto sorpresa e sconforto già è compreso nella notizia e frasi simili serviranno dopo, nei giorni seguenti. Al massimo si sta molto vaghi sul "si temono tot morti", per prepararsi il campo per gli articoli futuri.

Per allungare il brodo si infilano dentro una serie di dati presi da Wikipedia, ma sempre molto vaghi, come "il Nepal, tra i paesi più poveri al mondo", "non succedeva da 80 anni", per non rischiare di sbagliare ma comunque dare l’idea di un contesto a un lettore che, si presume, il Nepal nemmeno sa dove si trovi. Si infilano dentro anche due o tre monumenti distrutti per sempre, a patto però che siano patrimonio dell’Unesco, facilitando il processo di immedesimazione del lettore italiano che, istintivamente, traccia parallelismi mentali come "è crollato il Colosseo del Nepal".

Secondo giorno – Inizia la conta dei morti + gara di solidarietà

Sempre basandosi sui numeri ufficiali o dati da altri che sono già sul posto (corrispondenti fissi in India delle principali agenzie internazionali e dei quotidiani anglosassoni, che dispongono di mezzi economici e logistici per raggiungere almeno Kathmandu quasi immediatamente), si inizia a dar conto del bilancio delle vittime sempre in crescita (coefficiente "poveri Nepalesi") bilanciato dalle dichiarazioni della comunità internazionale che promette aiuti e sostegno ai "poveri Nepalesi" (coefficiente "poveri Nepalesi, li aiutiamo noi"). Fino a qui la notizia è ancora il Nepal, insidiata però a livello di notiziabilità dal ruolo che noi possiamo avere in tutto questo disastro: è "l’ansia da solidarietà", vissuta su due binari paralleli, quello privato ("cosa posso fare io per il Nepal") e quello pubblico ("cosa sta facendo l’Italia per il Nepal", che si evolve in "guarda cosa stanno facendo tutti per il Nepal, e noi italiani invece…").

Terzo giorno – Esigenza di cambiare prospettiva + riagganciare il lettore con più immedesimazione

Nella pratica, se io giornalista ti racconto per tre giorni di seguito che i morti stanno aumentando e gli aiuti stanno arrivando – a rilento e con difficoltà causate dall’impreparazione del Nepal a riceverli, quegli aiuti – tu lettore ti annoi, hai l’impressione che ti stia ripetendo le stesse cose, concetti che ti ho già esposto ieri e che tu hai già assimilato: poveri nepalesi, li aiutiamo noi, ecco come.

D’altra parte, se provassi ad approfondire alcuni aspetti peculiari del Nepal (chi sono, come stavano prima che noi ce ne occupassimo per via del terremoto, storia, politica, economia), tu lettore ti annoieresti perché io giornalista ti ho abituato a un hype d’emergenza e spettacolarità con termini come "lotta contro il tempo", "si scava tra le macerie", mettendoti su un ottovolante giornalistico che va a tutta velocità nel tentativo – vano – di star dietro ai nuovi media come Twitter, senza nemmeno avere la possibilità di farti vedere video o immagini. Una battaglia persa in partenza che noi, stancamente, siamo obbligati lo stesso a combattere per tenere in piedi una certa "sacralità" del vecchio giornalismo.

Come ovviare a questi impedimenti? La risposta è: immedesimazione.

Nel nostro caso, immedesimazione sono gli alpinisti morti o bloccati sull’Everest, cittadini occidentali, bianchi, come minimo benestanti, sui quali io giornalista posso adoperare la leva del "potevo essere io", "poteva essere quel mio amico", forte di una tradizione alpinistica abbastanza solida in Italia. E quindi, mixando con un po’ di sensazionalismo, ti prendo per mano, lettore, e ti porto a vedere tutto da una prospettiva più familiare, titolando "Strage di alpinisti". Anche i bianchi soffrono.

Non dovendo spiegarti il loro background, non dovendo contestualizzare la loro presenza sul posto, posso raccontarti la loro disperazione (molto più vicina alla tua potenziale disperazione, rispetto a quella di una famiglia nepalese che tu non conosci, che vive in condizioni per te inimmaginabili), sovraesponendo le morti – alcune decine – di alpinisti super attrezzati con al seguito decine di sherpa – nepalesi – e mettendo da parte migliaia di morti nepalesi a valle, che al terzo giorno non mi "notiziano" più.

Quarto giorno e oltre – Il tempo dei miracoli + interviste dei superstiti + italiani in Nepal

A questo punto siamo arrivati agli strascichi della notiziabilità di una tragedia. Gli spazi sui media si restringono, sopraggiungono altri eventi nazionali o internazionali (nel caso italiano, quasi sempre nazionali, come Expo e "devastazione" di Milano, sempre per rimanere nell’hype, ma c’era anche lo scudetto della Juventus, il Carpi dei miracoli, l’Italicum, Berlusconi che prova a vendere il Milan ai thailandesi e ai cinesi), e mentre io giornalista sono chiamato ad aggiornare il bilancio dei morti, infarcendo qua e là con le tensioni dei nepalesi che ancora non ricevono aiuti e scoppiano le prime risse in coda per la frustrazione, il mio caporedattore esteri tipo (disclaimer: non il mio mio, e gliene sono grato ogni giorno), mi chiede tagli con maggiore immedesimazione o coefficiente "poveri Nepalesi", ma anche coefficiente "speranza", "miracolo della vita", "storie a fin di bene" e "esotismi che non credevi e invece".

E lo chiede anche a chi è riuscito a raggiungere il Nepal, dando materiale a tutti noi che in Nepal non ci possiamo o vogliamo andare, ovvero ai colleghi dell’Ansa a New Delhi. Che, lo dico proprio esplicitamente, conosco e ritengo bravi giornalisti che vorrebbero fare tutt’altro tipo di giornalismo, utilizzando i (pochi) fondi che hanno in un modo più decoroso.

Invece, dal quarto giorno in avanti, l’inviata Ansa in Nepal è costretta a mandare lanci come questi:

Sisma Nepal: ultracentenario trovato vivo dopo 8 giorni. Estratti da macerie altri tre superstiti. Allarme Onu per aiuti.

– Sisma Nepal: indiano,"previsto 3 giorni prima dalle nuvole". Shakeel Ahmad, "nessuno mi ha creduto".

– Nepal: illesa ‘dea vivente’ bambina, ma trasloca. Dal 2/o piano della sua residenza al Kumari Ghar al piano terra.

– Sisma Nepal: riapre pizzeria italiana, "è stato tremendo". La proprietaria Anna Maria Forgione aveva appena fatto le scorte

Alternati a reportage di servizio come questo, che raccontano come stanno andando gli aiuti italiani in Nepal.

Parallelamente, mi dicono amici tv muniti, pare che anche emittenti con disponibilità economica indubbia come Sky in Italia stiano mandando a ripetizione un video di un incontro esclusivo con la suddetta dea bambina, sempre nel solco dello strano ma vero di un paese uscito da un terremoto da magnitudo 7,9 ma attraversato da quella Fede mistica tutta orientale così permeante tanto che, quoto testualmente dal servizio, "è a lei che guardano milioni di nepalesi che temono nuove scosse".

Perché vi raccontiamo queste cose, in questo modo? Perché chi, sopra di noi, decide cosa va su un giornale o su un tg è convinto – forse a ragione, è il terrore – che questo tipo di racconto vi soddisfi, vi appassioni, vi tenga attaccati alla tv o vi faccia comprare il giornale. E siccome noi giornalisti di esteri, per la maggior parte non contrattualizzati e quindi precari, da un lato vogliamo fare un lavoro che non ci umili (troppo) ma dall’altro dobbiamo vendere pezzi per campare, siamo costretti a piegarci il più possibile alle cosiddette "esigenze editoriali", che – non credete – subiamo esattamente come voi lettori.

L’amarezza, per chi scrive, arriva pensando che quando finiremo di raccontare il Nepal (e sarà presto, per motivi fisiologici all’informazione e alla vostra attenzione di lettori, che non è male o bene, è semplicemente così), di tutto questo Nepal ci rimarranno impressi pochi concetti: "poveri Nepalesi", "poveri Nepalesi, ma li aiutiamo noi", "il miracolo della vita", "gara di solidarietà", "miracolo sotto le macerie", "dea bambina", "strage di alpinisti".

Passeremo oltre, e meno male, ma l’impressione sarà quella di essere passati senza aver lasciato molto, e un po’ spiace. 

[Scritto per East online; foto credit: eastonline.eu]