The Leftover of the Day – VINCERE UNA GUERRA NON COMBATTUTA

In by Simone

Necessario strumento di autosupporto per digerire i fraintendimenti e le inquietudini quotidiane. Quando ogni sforzo di dialogo interculturale cede davanti alla bieca logica capo-dipendente.
12 novembre 2009, 16:13
VINCERE UNA GUERRA NON COMBATTUTA

Episodio curioso. Che racconta qualcosa della psicologia del mio capo e, volendo esagerare, dei giapponesi.

Giorni fa decido di ridurre il numero delle sigarette. Non già di smettere, ma di controllarne il numero, senza superare le 4-5 al giorno. Perché la colite sta diventando insopportabile e imbarazzante, non per altro.

Glielo dico in uno dei nostri pranzi tête-à-tête. Non ne capisco il motivo, ma la sua prima reazione è quasi di stizza. La ributta sullo scherzo, però – ormai ho sviluppato una certa sensibilità ai suoi umori – capisco che, sotto sotto, cova un fastidio. Allora comincia a minacciarmi amabilmente: "ah, sì, in effetti stavo pensando che era il momento di cercare un’altra persona al tuo posto", e battute analoghe (giocando su quello che ripete ogni volta – con mio sommo scorno – e cioè che, al colloquio, mi prese soprattutto perché fumatrice).

Il peggio però è quando, il giorno seguente, non più soli, comincia a dire cose ancor più stupide, come: "Lei fuma solo perché gli scrittori devono fumare" e fa tutte le smorfiette come fossi un’adolescente con le unghie dipinte. Inutile la mia replica, in inglese of course, e che comunque suonava più o meno così: "ah bello, fumo da quando c’ho 15 anni, ormai chissenefrega perché ho cominciato", lui insiste e cambia tono: "beh, comunque sia ormai è tardi, se ti aprono, i tuoi polmoni sono neri" e amenità sullo stesso stile. Dentro di me mi chiedo che gli prende e mi domando se può essere così instabile da mettersi in competizione su questa cosa.

Ed ecco il voltafaccia. Oggi arriva e mi dice: "Facciamo un patto: da adesso in poi non si fuma più in questa stanza (l’ufficio è composto di 4 ambienti anche se stiamo in due in una stanza e siamo al massimo in tre persone in tutto, nda), chi se ne scorda, paga 1 euro". Lo guardo perplessa, e, come ho imparato a fare, metto le mani avanti: "Ma no, tranquillo, se tu vuoi fumare non è un problema per me (a parte che appena arrivo il mattino c’è una puzza da vomito, passo una mezz’ora a svuotare portaceneri, devo aprire tutto, avvolgermi in sciarpe e giacconi per contrastare le correnti e accendere incensi che sembra un luogo sacro, nda)". Ma lui dice: "Non lo faccio per te, lo faccio per me!". Tutto chiaro. Non contento, prende dall’anticamera il cartello VIETATO FUMARE e cerca un posto dove appenderlo. Per imprimere un sigillo simbolico.

Sembra tutto ininfluente, me ne rendo conto, però penso a tutte le volte in cui ho chiesto, reclamato, lottato per qualcosa e a quel che ho ottenuto. Assolutamente nulla, se non una crepa nella perfetta armonia delle relazioni gerarchiche che non mi consentono esplicite recriminazioni. O penso a quel che lui mi ha detto, altre volte: sul fatto che i giapponesi sono permalosi e se gli si parla troppo direttamente reagiscono male. È così vero. Non stavo combattendo nessuna battaglia (davvero, eh, non è che uno passa da fumatore a nemico dei fumatori nel giro di poche ore), ed ho vinto la guerra.

E poi: il valore funzionale dei simboli. Basta mettere un cartello e la regola diventa ferrea e inviolabile. È stato un quarto d’ora a cercare un posto dove appendere il cartello. Ma se siamo solo io e lui in questa stanza!

*Lavoro per un giornale giapponese, ma in Italia. Non parlo giapponese, ma passo le giornate a discutere con un giapponese: il mio capo. Ne ho cambiati diversi, eppure molte questioni sono rimaste le stesse. Ce n’è una, poi, a cui proprio non so dar risposta: che ci faccio qui? (senza scomodare Chatwin per carità)