«Il più grande problema strutturale della Cina»

In by Simone

In Cina la chiamano chengshihua, ovvero «urbanizzazione». Un fenomeno sociale controverso e da decenni al centro del dibattito politico-economico tra i quadri del governo cinese. Lo spostamento in massa di milioni di uomini e donne dalle zone rurali a quelle urbane è senza ombra di dubbio frutto della politica di apertura del piccolo timoniere Deng Xiaoping nel 1978 e dei massicci investimenti di capitali stranieri in alcune aree del paese. Le stesse che a distanza di oltre trent’anni sono oggi a ben vedere le più sviluppate del paese. Stiamo parlando del delta del Fiume delle Perle nella provincia meridionale del Guangdong, del delta del Fiume Azzurro tra Shanghai e Hangzhou e  la baia di Bohai, nel nord-est cinese, dove sono Pechino e Tianjin.

La migrazione di questi contadini ha raggiunto l’apice negli anni Novanta. Negli ultimi tempi, a causa di una crisi globale che ben conosciamo in Europa, questo spostamento in massa ha subito una battuta d’arresto. Relativamente però: oggi si parla di un numero totale di migranti all’interno dei confini cinesi che va dai 150 ai 230 milioni, a seconda delle diverse fonti di riferimento.
Una bella gatta da pelare per i quadri di Partito. Il governo infatti da anni incoraggia l’urbanizzazione: la manodopera a basso costo dalle campagne è fondamentale per la realizzazione di una società moderna e urbana. Ma in assenza di infrastrutture e politiche sociali l’arrivo in massa di contadini crea non pochi problemi. Ecco allora che vengono a formarsi nuove realtà urbane e sociali.

Stiamo parlando dei pinminku, letteralmente «tane dei poveri». Al di là del nome poco elegante, sono dei veri e propri slums delle periferie delle metropoli cinesi. Crescono su dal nulla, a conseguenza di una forte urbanizzazione: sono agglomerati di baracche e lamiere, fango e topi, dove mancano i servizi sanitari di base e a volte persino l’elettricità o l’acqua corrente. Sono abitati soprattutto da migranti, operai o disoccupati. A volte basta percorrere un paio di chilometri a piedi oltre il capolinea di una qualsiasi metropolitana a Pechino per trovarsi, in pieno giorno, di fronte a uno spettacolo simile: case di legno e lamiera, bambini e cani a giocare in strada, qualche donna a stendere il bucato. Gli uomini sono a costruire grattacieli o a ultimare una nuova linea della metropolitana stessa. Per poco più di cento euro al mese.

Non bisogna però confondere queste realtà con gli slums che troviamo, ad esempio, nelle città dell’India, dell’Africa o dell’America Latina. In queste zone di periferia non troviamo solo migranti in difficoltà economiche ma anche giovani neolaureati che non possono permettersi alloggi migliori in altre zone della metropoli. I sociologi li chiamano yizu, «l’esercito delle formiche». Altro nome poco simpatico per indicare questi giovani colletti bianchi che di giorno sono a lavorare negli uffici del centro e la sera passano le notti in appartamenti di fortuna da condividere con altri migranti. Arriviamo poi ai chengzhongcun, letteralmente «villaggi nelle città».

Qui il fenomeno è opposto: non sono i contadini ad entrare in città, ma le città a espandersi e fagocitare quelle vaste aree agricole che fino a poco fa erano le uniche fonti di reddito per milioni di agricoltori cinesi. Speculazione edilizia, bisogni del mercato e cieco capitalismo portano grattacieli e altri ingombranti edifici a convivere con baracche di contadini che hanno perso la terra e il lavoro, riempiendosi (in totale assenza di altre infrastrutture o piani regolatori) di gente di passaggio, disoccupati e sbandati. A ciò fanno seguito delinquenza giovanile, criminalità, traffico di droga e prostituzione. E instabilità sociale, che è un po’ lo spettro del Partito comunista cinese. I residenti urbani considerano queste aree un «cancro» per la città stessa. E i sociologi parlano di «slums con caratteristiche cinesi».

Secondo i dati del centro di ricerca per lo sviluppo del Consiglio di Stato, alla fine del 2009 il 46 per cento della popolazione cinese viveva in aree urbane. E raggiungerà il 63,6 per cento nel 2030. I residenti delle città saranno allora la bellezza di 930 milioni. In realtà, i problemi collegati a una scellerata urbanizzazione sono al centro dell’attenzione del governo. Politiche volte a trovare una soluzione e applicare sin da subito misure per arginare il problema rientrano nel dodicesimo piano quinquennale per lo sviluppo economico e sociale cinese (2011-2015), discusso lo scorso ottobre.

Alla sessione inaugurale del Comitato centrale del Partito, il premier Wen Jiabao ha detto di considerare la divisione economica tra città e campagne come «il più grande problema stutturale» della Cina. E ha aggiunto: «L’urbanizzazione è una tendenza inevitabile e una forte spinta per lo sviluppo sociale ed economico cinese. I problemi nel processo di urbanizzazione dovrebbero essere affrontati con tutti gli sforzi». Almeno formalmente, è chiara la posizione del Partito nei confronti di urbanizzazione e futuro delle città cinesi. 

Conseguenza di questo fenomeno è lo sviluppo di megalopoli come Chongqing: 31 milioni di abitanti di cui il 61,7 per cento con un hukou rurale. Il certificato di residenza che vincola i cinesi al  luogo di nascita fu introdotto da Mao Zedong negli anni Cinquanta del secolo scorso per impedire l’eccessiva urbanizzazione, ma negli anni ha aumentato la disparità tra le città e le campagne, favorendo la corruzione e un fiorente mercato di documenti falsi.

Alla suddivisione tra residenti rurali e urbani corrispondono diversi standard di servizi sociali e soltanto chi risiede nelle città può accedere di diritto al sistema sanitario o avere un’istruzione per i figli. Una condizione ben nota a politici intellettuali cinesi, tanto che lo scorso marzo, alla vigilia dell’apertura dell’annuale sessione plenaria dell’Assemblea nazionale del popolo, 13 quotidiani “liberali” pubblicarono un editoriale congiunto con cui chiedevano agli oltre 3.000 deputanti cinesi una riforma del sistema di registrazione. Lo scorso luglio la municipalità di Chongqing ha lanciato un progetto di  una riforma del sistema che permetterà a oltre 10 milioni di residenti rurali di diventare cittadini entro il 2020. In questo modo, ha scritto l’agenzia Xinhua, il tasso di urbanizzazione dovrebbe passare nel prossimo decennio dall’attuale 28 per cento a una percentuale che oscilla tra il 60 e il 70 per cento. Una rivoluzione che trova tuttavia riluttante chi, secondo gli amministratori locali dovrebbe trarne vantaggio: gli stessi residenti rurali.

Un sondaggio dell’Accademia delle scienze sociali ha rilevato che soltanto il 20 per cento dei migranti intervistati è disposto a cambiare il proprio hukou.

Come ha spiegato all’Asia Times un giovane manager di Pechino, nato e cresciuto nelle campagne della provincia nordorientale di Liaoning: anche se avesse la possibilità di modificare il proprio certificato da rurale a urbano non lo farebbe. La spiegazione è presto detta: pur accedendo a una serie di servizi nelle città il cambio dell’hukou porterebbe alla perdita di diritti riservati agli abitanti delle campagne.

Come sottolineato alla Xinhua dal direttore della team per la riforma del sistema a Chongqing, Zhao Yuankun, i residenti rurali non pagano le tasse sull’agricoltura, godono di un rimborso governativo per le visite mediche e di deroghe sui limiti imposti dalla politica sulla pianificazione familiare, la legge sul «figlio unico». Senza contare la condizione principale per ottenere il permesso urbano: la perdita dei diritti sulla terra.

Almeno sulla carta i residenti rurali possono accedere alle terre comuni del proprio villaggio anche dopo aver trascorso anni nelle città dove sono immigrati. L’economia informale nelle campagne funge quindi da ammortizzatore sociale per chi, nel caso non ci sia più necessità di manodopera nelle città o di crisi economica, decide di tornare a casa. Su questo punto fa leva la critica di sinistra contro la riforma dell’hukou. È la tesi pubblicata a marzo dal Chinese Studies Group secondo cui la riforma andrebbe a vantaggio degli interessi speculativi e sosterebbe la privatizzazione delle terre. «Con l’hukou rurale posso sostenere me e la mia famiglia con l’agricoltura», spiegava al Global Times un giovane migrante, «Se dovessi sostituirlo con quello urbano, rimarrei un lavoratore immigrato con un basso salario, con il rischio di rimanere disoccupato e senza i mezzi per sopravvivere in città».

Nonostante le resistenze la municipalità di Chongqing ha già fissato i primi obiettivi. Entro il prossimo anno oltre 660mila studenti nati in campagna dovranno cambiare il proprio certificato di residenza, volenti o nolenti. In molti hanno denunciato pressioni. Chi si rifiuta, hanno spiegato ai giornali coperti dall’anonimato, non potrà fare domanda per borse di studio, borse di ricerca e rischia addirittura di avere problemi a finire gli studi. In alternativa potrebbe essere tra i destinatari dei ‘sms rossi’ spediti ai cittadini di Chongqing su iniziativa del segretario del Partito comunista locale, Bo Xilai.

Nato nel 1949, lo stesso anno in cui fu proclamata la Repubblica popolare cinese, Bo è famoso per la sua lotta contro la corruzione e la criminalità che portò all’arresto di diversi boss, politici e addirittura giudici. Ma soprattutto è noto per la campagna educativa fatta di slogan maoisti sulla strade, canzoni rivoluzionarie e testi edificanti per ricordare ai cinesi che esistono ancora dei valori. La dilagante corruzione è infatti la controparte dello slogan «arricchirsi è glorioso» e mette a rischio l’armonia della leadership.

[Pubblicato su Loop, febbraio 2011]
[Immagine da http://greenleapforward.com]