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Xinjiang, le proteste in Cina e la pandemia

In Cina, Economia, Politica e Società, Sociale e Ambiente by Sabrina Moles

Urumqi non è Shanghai. E nemmeno Pechino. Chi sono le persone che hanno manifestato contro le restrizioni dopo l’incendio che ha ucciso dieci persone in lockdown? Un’intervista a Gheyyur Qurban del World Uyghur Congress per riflettere sulle dinamiche della strategia “casi zero” in Xinjiang

Giovedì 24 novembre un incendio uccide dieci persone rinchiuse nelle proprie abitazioni durante il lockdown di Urumqi. Sabato 26 novembre una veglia per commemorare le vittime si è trasforma in un fiume di persone diretto verso le sedi del governo locale con la richiesta di mettere fine alle restrizioni. Il giorno successivo, le autorità promettono un allentamento “graduale” delle misure più severe, in atto nella città da oltre 100 giorni. Nel fine settimana, tanti focolai di protesta esplodono in altre città della Cina e danno inizio a una serie di rimostranze da parte dei cittadini nei confronti della strategia di azzeramento dinamico.

La storia del lockdown di Urumqi e delle vittime dell’incendio diventa fatto di cronaca, tanto che vengono organizzate veglie anche all’estero. L’attenzione si sposta sull’inaspettata mole di persone che scende in strada per lamentare le condizioni di vita sotto la strategia “casi zero”. Ma Urumqi non è Pechino. Non è Shanghai. Urumqi è la capitale dello Xinjiang, una delle regioni più povere e marginali della Repubblica popolare, da tempo epicentro di una strategia di sviluppo controversa e che guarda soprattutto alla minoranza degli uiguri. Con i suoi 4 milioni di abitanti è una delle città più popolose nel quadrante nord-occidentale cinese e si trova al crocevia dei nuovi progetti che ricadono sotto il cappello della Belt and Road Initiative.

Per riflettere sulla portata di quanto accaduto negli ultimi giorni a Urumqi abbiamo intervistato Gheyyur Qurban, direttore dell’ufficio berlinese del World Uyghur Congress. È originario di Yarkant, una cittadina ai margini occidentali dello Xinjiang. Vive in Germania dal 2006 e da allora si occupa di denunciare violazioni dei diritti umani in quello che gli uiguri chiamano ancora Turkestan orientale. Termine che Pechino associa ai movimenti secessionisti di metà ‘900. 

Ho l’impressione che l’ondata di manifestazioni nelle principali città cinesi abbia spostato l’attenzione sulle istanze di lavoratori e giovani del ceto medio, mentre in Xinjiang la situazione è articolata diversamente e altrettanto complessa. È così? Ci sono dei punti che vale la pena approfondire intorno all’applicazione della strategia “casi zero” in questa regione?

L’incendio è stato un evento tragico ed è stato causato direttamente dalla politica estremamente dura adottata dalla Cina per “azzerare” i casi Covid. Ma non è che l’aggravarsi di una situazione preesistente, che vede gli uiguri vittime di una politica repressiva molto severa da oltre settant’anni. Una politica che si è aggravata con l’arrivo dell’attuale presidente Xi Jinping. Con la politica casi zero si è cercato di vendere ai cittadini l’idea che ciò sia prevalentemente per la protezione del popolo e della sua salute, ma come queste politiche vengono eseguite nel Turkestan orientale va ben oltre l’intenzione di contenere la pandemia. Grazie alle testimonianze che ci arrivano possiamo vedere quanto queste misure repressive abbiano avuto delle gravi conseguenze sulla popolazione, soprattutto in aree come Urumqi e Ghulja [Yili in cinese, ndr]. Molte persone si sono trovate senza cibo e assistenza medica, altre sono state rinvenute già morte nelle proprie abitazioni. Qui sta forse la questione principale da cui nasce l’insofferenza nei confronti del governo e della strategia “casi zero”, ma anche dal fatto di trovarsi rinchiusi in casa con addosso una grande pressione da parte delle autorità. C’è una componente di pressione psicologica fortissima e gli ultimi incidenti (mi viene in mente anche il caso delle persone morte nell’autobus che le stava portando verso un centro di quarantena) hanno in qualche modo rotto la fiducia dei cittadini.

Da agosto la città è di fatto in lockdown. Sai dirci qualcosa di più su come si svolge la vita a Urumqi da quando sono aumentate le restrizioni? Secondo te c’è una differenza di trattamento tra Uiguri e Han?

Sì. In molte aree del Turkestan orientale ci sono state famiglie uigure che lamentavano di dover rimanere chiusi in casa mentre venivano fatte eccezioni per i cittadini Han [l’etnia maggioritaria in Cina, ndr]. Alcuni hanno denunciato anche un diverso trattamento nella distribuzione del cibo, che era necessario per la sopravvivenza delle persone in lockdown. Si parla di cibo andato a male, e di lunghe attese prima di ricevere medicinali e viveri. In generale le chiusure hanno sollevato il problema della mancanza di assistenza sanitaria, anche qui con gravi ritardi. Qualche video è girato sui social media, si vedono bambini che piangono e genitori che non possono dare loro nulla da mangiare. Che ci sia un doppio standard non è qualcosa di nuovo davanti alle politiche avviate da Pechino.

Urumqi non è lo Xinjiang, così come nel resto della Cina esiste un divario molto ampio tra la vita in città e nelle campagne. Chi sono gli uiguri che oggi vivono in queste aree marginali? Abbiamo notizie su come sta procedendo la politica di azzeramento dinamico lì, se si sono registrati casi di incoerenza tra gli obiettivi di produzione e strategia “casi zero” come accaduto alla Foxconn di Zhengzhou?

Nelle campagne la situazione è ancora più grave. Soprattutto quest’anno si sono registrati episodi di carestia, mentre dove sono stati imposti i lockdown la scarsità di cibo era ancora più evidente che a Urumqi. Il caso più grave riguarda la città di Ghulja, dove la mancanza di cibo ha raggiunto livelli mai visti prima. È una situazione difficile da immaginare da qui, mi viene in mente che all’inizio della pandemia in Germania mancava la carta igienica. Ma non siamo mai arrivati ai livelli di non avere accesso a nessun tipo di alimento. Qui parliamo di aree molto marginali, dove ancora prima della pandemia era facile che mancassero alcuni beni essenziali. Raggiungerle richiede molto tempo. Parliamo comunque di zone dove le politiche repressive vendute sotto la bandiera dello sviluppo sono in corso da decenni. Non escludo che possano esserci stati dei momenti simili a quanto abbiamo visto accadere alla Foxconn, che è comunque qualcosa di straordinario se pensiamo al potere della censura cinese. Gli uiguri che lavorano nelle fabbriche o nei campi sono già abituati a vivere in un regime di stretta sorveglianza e a ritmi frenetici; quindi, non posso escludere che ci siano casi di coercizione che contraddicono la politica “casi zero”. I lavoratori locali sono manodopera a basso costo, cosa che non si riesce più a garantire in molte aree della Cina. E qui si concentrano quelle politiche avviate dalla “campagna contro la povertà assoluta”, ma di fatto ci sono in corso dei veri e propri trasferimenti forzati di manodopera dove serve. Anche persone giovanissime, studenti. Mi ricordo ancora che quando andavo a scuola si usava mandare gli studenti per due settimane nei campi di cotone, mentre in classe e nel quartiere si facevano altri lavori che venivano inquadrati come “lezioni di lavoro” (laodong ke劳动课). È una cosa difficile da immaginare qui in Europa, ma per me è come se fossimo stati abituati da sempre ai lavori forzati. Nelle campagne, poi, dove d’inverno non c’è molto da fare, il governo cinese si è inventato lo Hashar [termine uiguro per definire i lavori pubblici eseguiti dai cittadini su base volontaria, ndr]. Pur di non far stare le persone a casa a fare niente, o forse per non fare in modo che pensino troppo. Si facevano scavare dei canali per poi riempirli nuovamente di terra la stagione dopo. È qualcosa di difficile da immaginare. Passami l’analogia, è come una persona che lavora nei bagni pubblici, ci sta sempre dentro e alla fine non fa neanche più caso alla puzza. Te ne accorgi solo molto tempo dopo che sei fuori.

Cosa ne pensi delle proteste che sono state registrate in diverse città cinesi?

È presto per trarre delle conclusioni da quanto sta accadendo, ma ho le mie opinioni a riguardo. Ho quarant’anni, più della metà dei quali vissuti nel Turkestan orientale. E devo dire che è la prima volta che vedo qualcosa del genere, mi ha colpito molto vedere i filmati in arrivo dalla Cina. Al fondo di queste proteste ho visto una certa solidarietà nei confronti degli uiguri [vittime dell’incendio, esploso in un quartiere a maggioranza uigura, ndr] e questo mi dà una prospettiva nuova sulla situazione. Noi uiguri siamo stati repressi dal Partito comunista cinese, dalla polizia militare, da un governo che rappresenta soprattutto la maggioranza Han. È comunque sbagliato stigmatizzare l’intera popolazione cinese per gli errori del governo. Penso che la maggior parte dei cittadini nemmeno sia a conoscenza delle sterilizzazioni forzate e dei centri di internamento. La censura è talmente severa e la propaganda contro gli uiguri talmente potente che è difficile aspettarsi solidarietà. Anche da quei cittadini cinesi all’estero che godono della libertà di parola e hanno accesso ad altre fonti di informazione. Questo ti fa perdere la speranza. Invece devo dire che quanto accaduto nel fine settimana mi ha dato speranza. Migliaia di persone che scendono in strada a Urumqi per chiedere la fine delle restrizioni, per criticare le azioni del governo…ma anche per portare l’attenzione su un fatto che ha colpito prima di tutto la comunità uigura. Questo mi ha toccato. È comunque un duro colpo alle politiche di Pechino.

Forse l’incendio ha stimolato l’idea che questo possa accadere a chiunque in Cina debba fare i conti con i lockdown? Pur consapevoli, i cittadini cinesi stanno provando ora sulla loro pelle la preoccupazione per delle misure di sorveglianza invasive che stanno permettendo di rintracciare chi è sceso in strada a protestare.

È così, è un punto importante della questione. Negli ultimi anni, soprattutto con l’arrivo di Xi Jinping, abbiamo visto la situazione peggiorare. Le politiche repressive adottate contro gli uiguri, ma anche contro i tibetani o i manifestanti a Hong Kong vengono portate avanti anche contro gli stessi han della Cina continentale. Si sta andando verso l’estremo, è un trend preoccupante che ci riporta indietro di anni e va contro quelle che sembravano essere delle timide riforme adottate in passato. La Cina sta diventando sempre più repressiva, aggressiva, isolata. È molto pericoloso, non solo per le minoranze. Certo, le minoranze vivono una minaccia esistenziale, perché qui parliamo di genocidio, di manovre esplicitamente mirate a ridurre la popolazione. Ma la raccolta del dna, le registrazioni della voce sono tutte misure sperimentate nel Turkestan orientale e in Tibet che portano verso un sistema di sorveglianza assoluta. Un sistema che può essere esportato in altre parti del paese.

Di Sabrina Moles