Xi Jinping, l’accentratore

In by Simone

Le riforme cinesi promettono di rivoltare il Paese come un calzino e di avere la stessa importanza storica di quelle lanciate da Deng Xiaoping, trentacinque anni fa. E danno finalmente una risposta alla questione che da oltre un anno divide gli opinionisti e gli anlaisti della Repubblica popolare: “Xi Jinping è più Mao Zedong o più Deng Xiaoping?”
Settore pubblico e privato messi sullo stesso piano e aperti alla concorrenza, welfare, abolizione dei campi di lavoro (laojiao), terra data ai contadini, fine della legge del figlio unico, nascita di un sistema bancario privato, riduzione dei crimini punibili con la pena capitale, riforma del sistema di residenza obbligatoria (hukou), autonomia del giudiziario e altro ancora. Le riforme cinesi promettono di rivoltare il Paese come un calzino e di avere la stessa importanza storica di quelle lanciate da Deng Xiaoping, trentacinque anni fa.

Dopo il loro disvelamento, il dibattito “Xi Jinping è più Mao Zedong o più Deng Xiaoping?”, che tanto ha appassionato gli osservatori stranieri da un anno a questa parte, sembra essere giunto a una conclusione: Xi è “denghissimo”, conclude la maggioranza.
Ferma presa politica sulla società e grande impulso alle riforme di mercato. Il socialismo secondo caratteristiche cinesi trova forse oggi, con il figlio dell’”immortale” Xi Zhongxun, la sua piena realizzazione. È la spinta verso una società più ricca, più soddisfatta e anche più uguale, come presupposto per ogni eventuale cambiamento politico. Che comunque, c’è da scommetterlo, vedrà sempre il Partito come protagonista.

Perché Xi non è un novello Mao Zedong?
Il maoismo implicava grandi movimenti di massa e, almeno durante la Rivoluzione Culturale, critiche e autocritiche rivolte al Partito stesso. Non c’è niente di più alieno di questo nella mente della nuova leadership, osserva Bill Bishop, esperto di cose cinesi. Certo, qualche mese fa Xi ha fatto il suo bravo giro mediatico nelle sedi di alcuni governi locali facendosi fotografare in sedute di autocritica con i funzionari. Ma tutto discende dal – e ritorna al – Partito, che è determinato a evitare il caos come la peste. Nessuna Rivoluzione Culturale, da queste parti, nessuno sparo contro il “quartier generale”.

Il “maoismo” (o pseudotale) di Xi appare forse in qualche rimasuglio di quella che fu l’autentica grandezza di Mao: il tentativo di superare ogni fase critica, ogni contraddizione in seno al percorso socialista, con più rivoluzione. Volontarismo e spesso azzardo, nessuna marcia indietro.
Anche oggi c’è lo slancio, tuttavia dell’azzardo non si vede traccia. Lo sviluppo deve essere “scientifico” e le riforme sono state preparate per anni, sperimentate sul campo, soppesate, ridefinite, grazie a una rete di ricercatori e policy makers disseminati sull’immenso territorio cinese e coordinati dalla Fagaiwei, la Commissione Nazionale per lo sviluppo e le Riforme. Il lavoro è ancora in corso.

Quanto al superamento di una fase critica con più rivoluzione, dobbiamo intenderci bene. La rivoluzione di Xi è “di mercato”, ma bisogna dimenticare Reagan e la Thatcher e togliersi anche di dosso quella fastidiosa sensazione per cui sentir parlare di concorrenza, liberalizzazione, privato messo sullo stesso piano del pubblico, ci suona sempre un po’ come fregatura per i lavoratori.

Nella Cina delle grandi imprese di Stato, la scelta del mercato per “allocare meglio le risorse” è in realtà il tentativo di spostare più fette di Pil dagli interessi costituiti dei grandi boiardi di Stato – che nelle grandi compagnie pubbliche si sono ricavati nicchie di potere – alle famiglie.
Bisogna cambiare fonte della crescita, perché gli investimenti che si riversano nelle grandi Soe non sono più efficienti, spariscono, generano corruzione, speculazione immobiliare e bolle finanziarie destabilizzanti. Certo, i grandi conglomerati vanno mantenuti perché sono le forze corazzate della Cina che sbarca sui mercati globali. Ma vanno riformati profondamente, facendo piazza pulita dei poteri costituiti al loro interno – ecco la perenne campagna anticorruzione – e affiancando loro un settore privato che li pungola, li costringe a competere, a diventare efficienti.

Il nuovo motore della crescita deve essere il consumo interno, non più l’export. Qui sta la funzione del mercato, cioè delle piccole-medie imprese private, le uniche che riescono realmente a produrre nuova occupazione, cioè redditi, cioè disponibilità discrezionale di spesa. Ma dato che il reddito delle famiglie deve oggi crescere più di quello degli “State actors”, ci troviamo di fronte a un grande paradosso. Finora, ciò che era vantaggioso per l’elite cinese era giusto anche per il Paese. Ma nei prossimi anni, gli interessi dell’aristocrazia rossa non saranno più gli stessi del Paese e, in qualche modo, chi sta al potere dovrà rinunciare a una fetta della propria ricchezza per ridistribuirla e dare così nuovo slancio alla Cina.
Il che presuppone immani conflitti interni al Partito-Stato. Ecco perché alle aperture di mercato si accompagna lo stretto controllo politico.

Orville Shell, sinologo di statura mondiale, scrive che i margini di libertà presenti nelle riforme di oggi sono funzionali alla liberazione delle forze produttive. Eliminazione dei lavori forzati, riduzione dei reati punibili con la pena di morte, libera circolazione rappresentata dal rilassamento delle norme che riguardano l’hukou (la residenza obbligatoria che dà servizi e diritti solo dove si è registrati), allargamento delle maglie nella “legge del figlio unico”, sono tutte funzionali a costituire una società più creativa, innovativa e quindi – nel sistema di produzione contemporaneo – produttiva.
Perché alla Cina non interessa la libertà individuale di per sé
– continua Shell in un articolo per il sito dell’Asia Society “China File” – bensì che “un popolo stanco di sconfitte e di sfruttamento si senta orgoglioso per il ringiovanimento della sua nazione”. È il “rinascimento della nazione cinese” o “sogno cinese”, slogan coniato da Xi e stella polare del futuro.

Il professore Xiao Gongqin, uno dei massimi teorici cinesi del “neo-autoritarismo” plaude al presidente cinese, “nuova incarnazione del leader modello Deng Xiaoping”: “Xi Jinping segna l’arrivo di un periodo d’oro per il neo-autoritarismo cinese – dice lo studioso – in questo momento è essenziale concentrare il potere. Ci vuole un uomo forte, un leader potente, e questo tipo di leader deve avere prestigio e anche poteri istituzionalmente garantiti”.

Secondo Chris Buckley del New York Times il varo delle riforme ha rivelato la forza della nuova leadership, che in parallelo alle aperture socio-economiche ha anche creato una nuova Commissione di Sicurezza Nazionale che spazierà dalle questioni interne a quelle estere (e c’è chi si interroga su cosa sia questa nuova “moda” delle commissioni di sicurezza che nascono dagli Usa alla Cina). Fonti cinesi ci hanno spiegato che la nuova commissione sarebbe da interpretare più in chiave di politica estera che di ordine interno: “In caso il Giappone esagerasse o quell’idiozia del pivot to Asia [la politica di contenimento della Cina, lanciata da Obama e finora mai realmente decollata, ndr] si spingesse troppo in là, bisogna essere pronti a una risposta efficace ma non esagerata, fuori controllo”, ci ha raccontato uno studioso che preferisce restare anonimo.

E poi c’è la fantomatica nuova “Commissione di Livello Centrale per l’Indirizzo delle Riforme” (Zhongyang Chengli Quanmian Shenhua Gaige Lingdao Xiaozu), un gruppo “centralizzato” (cioè dipendente dai sette membri del Comitato permanente del Politburo, la stanza dei bottoni), che al fianco (o forse sopra) la Fagaiwei sovrintenderà direttamente il grande cambiamento. Servirà probabilmente a coinvolgere nel grande impulso alle riforme tutto quel mondo che resta fuori dalla commissione già esistente: il settore militare, le università, le piccole aziende private, i think tank non governativi. Un gioco di scatole cinesi che però devono sempre più comunicare tra di loro ed essere al contempo coordinate dall’alto. E là in alto c’è lui, Xi Jinping.

Insomma, l’immagine da uomo forte di Xi che esce dal plenum appare in netto contrasto con quella del suo predecessore, Hu Jintao, ricordato (e forse a breve dimenticato) per il suo burocratico grigiore. Il leader attuale non è né un riformista, né un conservatore, scrive il South China Morning Post di Hong Kong: “È chiaramente un pragmatico, come Deng Xiaoping”.

Al momento del suo insediamento si era cercato di accreditarlo anche per il physique du rôle: voce profonda, modulata come si deve quando un anno fa fece il suo primo discorso da “numero uno”, al momento della presentazione ufficiale del nuovo comitato permanente del Politburo. E poi quel metro e ottanta di altezza che in Cina è pur sempre tanto. Eppure Xi appare sempre un po’ come il pacioso compagno di banco cicciottello e sul web è comparso un blog (produzione straniera, non cinese) che si chiama How high are xi jinping’s pants today? (quanto sono alti i pantaloni di Xi Jinping oggi?), che ogni giorno pubblica una foto del leader cinese nel suo ormai consueto look “ascellare”. Fantozziano sì, ma occhio: un Fantozzi che morde.

Un’amica cinese è straconvinta che nella fine prematura di Bo Xilai – l’ex uomo forte di Chongqing – ci sia stato anche l’errore di essere alto un metro e ottantacinque: “Xi e Li sarebbero scomparsi al cospetto del suo carisma”, afferma, aggiungendo un po’ civettuola: “Lo dico da donna cinese”. Tant’è che al processo di Bo, nell’agosto scorso, si è pensato bene di mettergli accanto due poliziotti giganteschi, che lo facessero sembrare piccolo (“hanno preso sicuramente due attori”, dice l’amica). Uscito di scena l’uomo che poteva mettere in ombra la nuova leadership, ecco le riforme. La Cina volta pagina.

Oggi segnatevi un altro nome: Liu He, ex compagno di studi di Xi ed eminenza grigia delle riforme.  È vicedirettore della Fagaiwei ed è lui la prima persona che il presidente cinese ha presentato al consigliere per la sicurezza nazionale Usa, Tom Donilon, durante il viaggio pechinese di quest’ultimo nel maggio scorso: “Per me è molto importante”, ha detto Xi. Non è quello che gli anglosassoni chiamano “market fundamentalist”, anche lui bilancia pragmaticamente Stato e mercato. Fa parte di uno dei principali think tank governativi e ha elaborato il “piano 383”, quello su cui si basano le riforme. Sarà lui la longa manus di Xi nei prossimi anni e c’è chi azzarda che abbia già scavalcato il premier Li Keqiang nell’indice di gradimento della leadership. Sarà interessante osservare se sarà destinato a nuovi incarichi formali.

Sull’altro fronte della barricata, regna lo sconforto tra i sostenitori delle aperture democratiche. E nasce un altro paragone, non più rivolto al passato, bensì al presente: Xi jinping “vuole essere Putin”, dice Rong Jian, commentatore politico che campa vendendo arte. “Xi ha di gran lunga maggior potere economico fra le mani di quanto ne avesse Deng. Sono risorse enormi, quasi alla pari con gli Stati Uniti. Se vengono utilizzate bene, possono fare una grande differenza; ma se non lo sono, rischiano di provocare danni immensi”.

[Scritto per Linkiesta]