Un’altra campagna – Diario del festival che non c’è #2

In by Gabriele Battaglia

Il Bishan Harvestival 2012 doveva riflettere sul problema della diseguaglianza nella Cina contemporanea. Doveva essere un viaggio attraverso la Comune di Bishan, un esperimento in cui i suoi artefici, la gente che vi partecipa, si apriva al mondo. Ma è stata cancellato dalle autorità. Il tempio di famiglia dei Wang è l’epicentro di quello che avrebbe dovuto essere questo festival. Qui, l’artigianato dei contadini di Taiwan si mischia a quello dell’Anhui, ma non è una fiera di paese né un museo antropologico. È un modello alternativo di sviluppo, quindi politico.

Teng Hai, architetto di Taiwan è l’interprete materiale delle idee di Ou e Zuo. O forse le idee sono nate dopo averlo visto fare. “Gli anziani sono angosciati dalla morte perché al mondo non c’è più spazio per seppellire altre persone. Però se vieni cremato, le tue ceneri si disperdono”.

Ci mostra un oggetto di carta ripiegata dalla strana forma ondulata, sembra un coprilampada. Invece è un’urna funeraria. All’interno si colloca un cilindro di materiale biodegradabile con le ceneri del defunto avvolte in un foglio di carta in cui sono stati inseriti dei semi. L’oggetto verrà posto in un giardino e il suo contenuto penetrerà nella terra.

Se siamo fortunati crescerà un albero e se siamo ancora più fortunati, un bambino giocherà su un’altalena appesa a un ramo di quell’albero. Così, è come se un nipote dondolerà dalle braccia di un antenato. Quando ho fatto vedere questa soluzione ai miei genitori, ne sono rimasti entusiasti, è così che vogliono tornare alla natura”. È design che pesca nella tradizione e, con lavori come questo, Teng e il suo studio hanno vinto un premio a Berlino. Perché qui la tradizione è il codice che mette in comunicazione le generazioni. Interactions, doveva chiamarsi questo festival.

Hai fa riferimento all’architettura tradizionale: “Nei tempi antichi, le case erano il fulcro dell’economia, quindi erano grandi, piene di oggetti, avvolte da un doppio muro e contornate da vicoli stretti. Il modello di sviluppo corrente abbatte le vecchie case, taglia i muri esterni, per costruire nuovi palazzi e allargare le strade. Così facendo, restano dei semplici involucri e scompare anche il luogo dove si raccoglie la famiglia."

"La gente si arrende e lascia che questo avvenga in cambio di un compenso. Oppure accettano che il governo ristrutturi il villaggio tipico per farlo diventare un’attrazione turistica. Finiscono a vendere souvenir e non decidono più del proprio destino. L’architettura rimane un fatto esteriore."

"A Taiwan, faccio parte di un movimento che ha lottato per preservare la casa tradizionale nella sua integrità. Per esempio, abbiamo rivitalizzato una casa costruendo tra i due muri esterni un locale dove ci si può incontrare ma dove la gente ha cominciato a vendere anche le sue produzioni artigianali. Così chi abitava quella casa ha capito che è più conveniente, anche economicamente, partire da sé e mantenere la tradizione. Ci vuole sia la lotta simbolica, sia quella materiale”.

Qui a Bishan vogliono fare qualcosa del genere: utilizzare la tradizione non come ritorno al passato, ma come chiave per aggirare gli effetti più nefasti della modernizzazione a colpi di bulldozer.

Hanno fatto dei tavoli-espositori con i cesti tipici di questa zona e hanno esposto gli oggetti quotidiani. C’è tutto l’armamentario per scannare il maiale, truculento ma vero, nel senso che il locale scannatore ha messo i propri attrezzi a disposizione. È, questo, un punto fondamentale: qui passa il confine tra la valorizzazione dell’oggetto quotidiano e la riproduzione turistica. Da un lato la casa contadina, dall’altro il negozio di souvenir.

Di fianco agli oggetti c’è un foglio con la foto del proprietario e tutte le informazioni. “Così gli stessi contadini capiscono il valore del proprio lavoro e gradualmente, forse, imparano a prendere in mano il proprio destino”.

Bisogna essere duttili e graduali. Il villaggio è percorso da un tubo luminoso a led. Appena fa buio, si accende. “Ho chiesto al capo della municipalità come potessi rendermi utile e lui mi ha detto che senza illuminazione i visitatori del festival avrebbero potuto farsi male quando scende la sera”.

E quindi Teng ha fatto un esperimento: “Due-trecento metri di cavo luminoso che parte dalla casa di Ou. Quando abbiamo fatto la prima prova, la gente era eccitata ma aveva anche paura che i bambini o i cani potessero fulminarsi. Così abbiamo mostrato che il cavo è indistruttibile picchiandoci sopra con dei sassi. Sono tornato dal capo della municipalità e mi ha detto che l’esperimento era andato bene: ‘Puoi continuare’. Gli ho chiesto quanto cavo avrei potuto mettere. ‘Quattro, cinque chilometri’. Mi è venuto un colpo, ma alla fine ce l’abbiamo fatta”.

Duttili fino ad annullarsi, graduali fino alla rinuncia. “Qui non c’è materiale sensibile. Se questo festival fosse stato programmato tra un mese si sarebbe fatto senz’altro – continua Teng – il problema è solo il ‘grande diciottesimo’ per cui credo che continueremo l’esperienza”.

Jin Minhua, corrispondente da Pechino di un giornale di Shenzhen: “Le autorità mi hanno spiegato che sono successe delle brutte cose. C’è stato quel giornalista che è morto due giorni prima, avevano paura che troppi forestieri venissero qui proprio adesso. Uno mi ha detto che se questo evento fosse stato organizzato durante il capodanno lunare o il festival delle lanterne, non ci sarebbe stato problema. Ma adesso c’è lo shi ba da”.

Il paradosso di questa estemporanea censura con caratteristiche cinesi è che mentre le autorità di qui chiudono il festival, alcuni funzionari dello Henan sono in arrivo per confrontarsi con Ou e Zuo sull’esperimento della comune. Questo dà anche la misura di che razza di difficoltà possa avere il centro dell’impero, Pechino, per uniformare leggi non scritte, comportamenti, interpretazioni. La scommessa è che, gettato il seme, ci sia un funzionario interessato in più e uno terrorizzato in meno.

Liu Huafeng viene dalla zona del lago Poyang, in Jiangxi, a cinque ore da qui. Ha deciso, moderno missionario, di restare qui. “Per noi, generazione dei ba lin hou (i nati negli anni Ottanta), è un’occasione per risorgere a nuova vita. Siamo stressati, lo sviluppo è troppo veloce, qui ho un progetto, posso insegnare, scrivere, produrre cultura. Questo può essere il mio secondo villaggio natale. È un processo lento, bisogna essere prudenti”.

La domanda è: c’è tempo per modificare il corso degli eventi? Secondo Xinhua, ci saranno 600 milioni di cinesi “middle class” entro il 2020: la classe più energivora, meno ecosostenibile e oltremodo parassita del pianeta. Si aggiungeranno al già diffuso ceto medio globale, che compra villette in stile, percorre strade pavimentate nate dall’abbattimento di un “inutile” muro, uniforma la biodiversità.

Qui i villaggi si stanno già allargando con nuove costruzioni-involucro senza contenuto, i negozi di souvenir sorgono al posto delle sale di famiglia nei villaggi più vendibili. Se una famiglia contadina di una remota provincia cinese impedisce che un pezzetto della propria casa ceda il posto a tutto questo, forse c’è speranza.

[foto di Claudia Pozzoli. Gabriele Battaglia e Claudia Pozzoli erano stati invitati a partecipare al festival per presentare Inside Beijing, un webdocumentario sulle implicazioni sociali dei cambiamenti urbanistici e architettonici della città di Pechino]

Leggi la prima puntata del Diario