Xi Jinping ha detto ieri al presidente ononorario del Kuomintang Lien Chan che la Repubblica popolare rispetterà la scelte di Taiwan se dettate dalla consapevolezza che entrambe le parti stanno negoziando sulla base del principio "una Cina". Scontri e riappacificazioni tra le "due Cine" dal 1949 a oggi.
Legami politici diretti tra Cina e Taiwan. Questo è, in estrema sintesi, l’esito del summit tra Wang Yu-chi, responsabile della “politica cinese” per il governo di Taiwan, e il suo omologo della Cina continentale, Zhang Zhijun. Gli uffici a cui fanno capo i due politici istituiranno un canale diretto per “risolvere le controversie e aumentare la reciproca comprensione”, come è stato comunicato nella conferenza stampa successiva all’incontro. Wang ha per altro precisato che non si è discusso di un eventuale incontro tra i presidenti delle due parti, Xi Jinping e Ma Ying-jeou.
Finora, i rapporti tra “le due Cine” si tenevano attraverso due organismi semigovernativi: la Fondazione per gli Scambi Attraverso lo Stretto, di Taipei, e l’Associazione per le Relazioni Attraverso lo Stretto, di Pechino. Queste agenzie continueranno a esistere e si dedicheranno alle questioni pratiche, mentre i due governi interagiranno sul piano politico.
Si è trattato del vertice di più alto livello da quando Cina popolare e Cina nazionalista si sono divise dopo la guerra civile di 65 anni fa. La scelta di Nanchino come sede non è stata un caso. La città ha infatti un’importanza storica e simbolica che supera le divisioni, in quanto capitale della Cina durante il dominio dei nazionalisti, negli anni Trenta, prima della fuga a Taiwan del 1949. La città è anche il luogo dove è sepolto Sun Yat-Sen, il fondatore della Cina moderna, e Wang Yu-chi, il rappresentante di Taipei, si è recato a rendere omaggio alla sua tomba immediatamente dopo l’incontro.
Il summit è l’esito di sforzi diplomatici durati anni, al fine di normalizzare anche le relazioni politiche dopo i sempre maggiori successi in quelle economiche. Taiwan si staccò dal resto della Cina quando le forze nazionaliste di Chiang Kai-shek e circa due milioni di cinesi si rifugiarono sull’isola dopo la sconfitta subita ad opera delle truppe comuniste di Mao Zedong. Da allora, l’ex Formosa è nota come Repubblica di Cina, contrapposta alla Repubblica Popolare del continente. Entrambi i governi hanno sempre affermato di essere l’unico rappresentante legittimo della Cina nel mondo, ma nel corso dei decenni Taipei è stata gradualmente isolata diplomaticamente e ha perso il proprio seggio come delegazione cinese alle Nazioni Unite nel 1971. Oggi, Pechino occupa quasi tutti i posti negli organismi internazionali e fa muro contro l’ipotesi che anche i rappresentanti di Taipei possano prendervi parte.
A fine anni Settanta, con l’avvento di Deng Xiaoping e l’inaugurazione della stagione delle “riforme e aperture”, furono anche taiwanesi i capitali della diaspora cinese che, via Hong Kong, cominciarono ad affluire oltre Muraglia, dando impulso al primo boom del Dragone. Per capirne l’importanza, si consideri che diversi storici spiegano con quel flusso di denaro il fatto che la Cina post-maoista non abbia fatto la stessa fine dell’Urss. L’ex Formosa stava diventando nel frattempo una delle Tigri asiatiche, passando gradualmente dalle manifatture di basso livello – quanti si ricordano le bamboline made in Taiwan? – all’elettronica high-end. La stessa evoluzione in corso oggi nella gigantesca Cina della porta accanto.
Nel 1990 furono ristabiliti i primi contatti tra le due parti, attraverso le organizzazioni semiufficiali. Due anni dopo, il Kuomintang di Taiwan e il Partito comunista della Cina continentale si accordarono sul cosiddetto “consenso del 1992”, basato sul principio variamente interpretabile di “una sola Cina”, senza che si specificasse a quale ci si riferiva. I nazionalisti di Taipei – già nemici dei comunisti per settant’anni – sono da allora i fautori del riavvicinamento con Pechino in nome di una comune identità, mentre il Partito democratico (nato nel 1986) spinge per l’autonomia dell’isola e rivendica una specificità taiwanese. Gli abitanti dell’ex Formosa sono spesso profondamente convinti di incarnare i valori della “vera Cina”: nella scrittura utilizzano i caratteri tradizionali e i valori confuciani sono ovunque radicati.
Dopo decenni di regime a partito unico fascista-confuciano – il cosiddetto “terrore bianco” che durò fino al 1987 – nel 1996 Taiwan tenne le sue prime elezioni presidenziali democratiche e nel 2000 il Partito democratico le vinse per la prima volta. Una risoluzione che affermava la separata identità dell’isola rispetto al continente, aumentò tuttavia le tensioni con Pechino e alienò al Partito parecchie simpatie anche sull’isola.
Il ritorno del Kuomntang al potere, nel 2008, ha permesso la stipulazione (giugno 2010) dello storico “accordo quadro di cooperazione economica attraverso lo Stretto” (Haixia liang’an jingji hezuo jiagou xieyi), un canale preferenziale attraverso cui le imprese taiwanesi sbarcano nella Cina continentale con tariffe agevolate e benefici fiscali.
Ne hanno approfittato soprattutto le banche, che hanno insediato filiali in tutta la Repubblica Popolare, e le linee aeree, che hanno potenziato le proprie flotte in vista di un traffico sempre più accentuato attraverso lo stretto. Ma non solo: l’immenso mercato cinese è ora percorso in lungo e in largo dai manager di Taiwan, forti di una matrice culturale comune e di legami allargati – il guanxi cinese – che scavalcano la frattura storica del 1949. In senso contrario, milioni di turisti continentali visitano Taiwan ogni anno, curiosi di vedere “un’altra” Cina.
Li Chengpeng, giornalista e opinionista, ha raccontato di recente la sua visita nell’isola dirimpettaia: “Avevo tre desideri da realizzare: visitare il parlamento; partecipare a una manifestazione; guardare i funzionari presi a scarpate [il riferimento è alla pratica, pare diffusa, di lanciare scarpe ai politici con cui si è in disaccordo]”, scrive ironicamente. Tutte cose impossibili per ora sul continente.
Ma gli scambi in forte espansione non avevano finora determinato progressi nella riconciliazione politica o ridotto il riarmo su entrambi i lati. Molti a Taiwan temono le mire della Cina autocratica sulla loro democratica isola e si ritiene che circa l’80 per cento della popolazione locale sia contraria a una vera e propria riunificazione. Insomma, meglio stare sospesi e intanto fare affari.
Da parte loro, le autorità comuniste di Pechino puntano ancora a riunire tutta la Cina sotto il proprio dominio – almeno a livello formale – e considerano Taiwan come una regione ribelle che prima o poi sarà riaccorpata alla terraferma, minacciando di passare alle vie di fatto se Taipei dichiarasse l’indipendenza formale. Secondo fonti Usa, l’Esercito Popolare di Liberazione avrebbe circa 1200 missili puntati sull’isola, così Washington rifornisce periodicamente Taiwan di armamenti e manda le proprie portaerei a scorrazzare da quelle parti, provocando ulteriori escalation.
Si va avanti così, in un tira e molla caratterizzato da periodiche fiammate. Da quando Il Kuomintang ha riconquistato il potere – confermato poi alle elezioni del 2012 – gli scambi economici sono raddoppiati, arrivando a 197 miliardi dollari l’anno scorso. Forte di questa base così materialmente cinese, la politica può prendersi tutto il tempo che vuole.
[Scritto per Lettera43; foto credits: therealsingapore.com]