Una madre contro i laojiao

In by Simone

Una bambina violentata e costretta alla prostituzione. Un suicidio. Una sentenza ingiusta. Le petizioni. Una madre che non si da pace. Ma dopo anni almeno un risarcimento. E la rimessa in discussione dei laojiao, i campi di lavoro. Un luogo dove si finisce senza condanna, in via amministrativa e senza processo.
Una storia terribile, triste, losca, terminata con una parziale vittoria della vittima: una vicenda che riaccende in Cina la discussione sui laojiao, i campi di lavoro dove finiscono piccoli delinquenti, petizionisti e poveracci. Ci finiscono senza processo e senza condanna: uno dei simboli degli abusi della «sicurezza» in Cina e dell’assenza di un impianto giuridico in grado di garantire alcuni diritti fondamentali. La storia è esemplare della Cina odierna e racconta quanto ancora si nasconda dietro lo sviluppo economico cinese, il «miracolo» di cui si parla in chiave entusiastica da anni.

Nel 2006 un gruppo di uomini rapisce, violenta e poi costringe a prostituirsi una bambina di undici anni. C’è una denuncia e un processo. Quando arrivano le sentenze, due persone vengono condannate a morte, due all’ergastolo, una a quindici anni. Secondo la madre della vittima sarebbero state coinvolte altre persone, trattate invece coi guanti di velluto dalla Corte. La madre decide quindi di procedere come fa un qualunque cinese, quando sente di aver subito un sopruso dalle autorità. Prepara una petizione, antica abitudine imperiale cinese, ancora oggi attuale: si chiede alle autorità centrali di riparare un torto.

Solitamente però questi petizionisti, che puntano a presentare i propri ricorsi a Pechino, vengono ostacolati in ogni modo. Le autorità locali di solito cercano di non farli partire; quando riescono a sfuggire ai controlli locali, spesso sono fermati alla stazione di Pechino e vengono portati nelle black jail, prigioni fantasma all’interno di residence o simil hotel, limbo giuridico dove dopo un paio di settimane vengono rispediti al luogo di origine. E’ fortunato il petizionista che torna intero. Tang Hui, la madre della bambina violentata, invece, anziché essere rinchiusa in una black jail viene direttamente portata in un laojiao, un campo di lavoro.

Si tratta di strutture dove finiscono spesso petizionisti, poveracci, prostitute, venditori ambulanti o chiunque abbia fatto l’«errore» di mettersi contro un funzionario importante, anche se locale. Sono il risultato di un vuoto giuridico, un luogo dove si finisce senza condanna, in via amministrativa e senza processo.

Tang Hui dopo soli quattro mesi venne rilasciata: il suo caso era diventato qualcosa di «sensibile» per l’amministrazione e la politica cinese: sul web erano arrivate proteste e molte dimostrazioni di solidarietà. Nel frattempo in Cina si era sviluppato un importante dibattito: intellettuali, professori prendono la parola per chiedere l’eliminazione del laojiao.

La politica risponde, alla cinese: attraverso articoli sui media ufficiali sembra si aprano scampoli di discussione al riguardo. Più che di eliminazione si parla di riforma. Tanto che su Lens, un magazine in cinese, esce un reportage nel quale parla un gruppo di donne che nei laojiao hanno patito torture e maltrattamenti (il reportage è stato pubblicato da Internazionale in Italia). L’articolo ben presto sparisce da internet e la rivista è chiusa: è un altro segnale. Se ne può discutere, ma è ancora presto per mettere in discussione l’istituzione.

Tang Hui nel frattempo, uscita dal laojiao, non si è arresa. Nel gennaio scorso, come hanno riportato i media cinesi ieri, prima ha citato in giudizio la Commissione del lavoro della città di Yongzhou chiedendo le scuse e un risarcimento, poi, vedendo la causa respinta, ha fatto appello al tribunale provinciale.

E in questi giorni è arrivata la sentenza a suo favore: il giudice ha ordinato alla Commissione del lavoro di pagare a Tang 2941 RMB (circa 350 euro) per aver violato la sua libertà personale e per averle causato danni mentali, secondo quanto riferito dagli avvocati di Tang. Pu Zhiqiang, un altro dei legali di Tang (spesso gli avvocati di queste cause in Cina, rischiano tanto quanto i loro assistiti) ha raccontato alla stampa che in realtà l’esito della causa è limitata al risarcimento e non mette in discussione la precedente decisione di mandarla in un campo di lavoro.

«Se non altro, hanno detto i legali, da oggi potrà cominciare a sperare di riavere una vita normale». Secondo Zhang Ming, professore di politica della Renmin University, sentito dal Guardian, «per persone come Tang Hui, si tratta di fatti veramente ingiusti: sua figlia aveva vissuto un’esperienza orribile, e lei è stata inviata in un campo di lavoro. Questi eventi non possono essere giustificati».

[Scritto per il manifesto; foto credits: www.csmonitor.com]