Un’immagine non può bastare a descrivere la Cina

In by Simone

Più di vent’anni passati in Estremo Oriente. Dai tempi di Tian’anmen si sforza di descrivere la Cina senza cadere in sterili semplificazioni. Ilaria Maria Sala ci racconta di sé, delle particolarità della città di Hong Kong e del futuro opaco del Partito. L’intervista di China Files.
La prima volta in Cina a vent’anni. Era il 1989 ed eri ospite di una di quelle università da cui è partito il movimento studentesco sfociato poi in Tian’anmen. In un’intervista hai dichiarato: alcuni decisero che non avrebbero più messo piede in Cina, altri invece – tra cui io – si attaccarono ancora di più a quella terra. Perché?

Perché tutto era troppo inaspettato, direi, rapido, violento, e la sensazione di aver appena cominciato ad imparare la grammatica generale di un Paese per rendersi conto di non averne capito nulla mi aveva impietrita. Sai com’è l’arroganza dei vent’anni, quando si ha la testa piena di opinioni, quasi tutte ignoranti: a volte invece succede qualcosa di drastico che ti fa capire quanto sciocca sia questa spocchia. Per me, è stato Tian’anmen.

E poi, per mesi avevo condiviso il mio quotidiano con persone per le quali nutrivo affetto, e mi sembrava indecente lasciarle lì, con i soldati agli angoli delle strade mentre io me ne tornavo via, come una turista priva di ogni coinvolgimento. Così appena è stato possibile sono tornata e sono rimasta ancora alcuni anni, per poi ripartire di nuovo per Londra, finire gli studi e tornare.

Sono passati vent’anni. Nel frattempo la Cina si è trasformata. Le riforme economiche e l’ingresso nel Wto e poi – come nel resto del mondo – la globalizzazione, internet, la guerra al terrore. Qual è secondo te, l’immagine che nella tua memoria riassume meglio il cambiamento avvenuto in questo paese?

Un’immagine sola non può bastare – figurati, a mala pena è sufficiente a descrivere quello che avviene in un condominio! Di frequente, quando parlo con i miei lettori in Italia, a una conferenza o in scambi online, mi rendo conto che alcune persone cercano di seguire con attenzione quello che avviene, anche con grande apertura mentale, ma che si trovano un po’ interdetti proprio da questa valanga di simbolismi, di interpretazioni che nascono dal ricamare su un particolare estrapolato dal resto…

Invece, ora che tanti cinesi abitano fra noi, che tanti italiani viaggiano verso la Cina, e che dai e dai l’editoria, la stampa, hanno cominciato ad aprirsi su questa parte così consistente di umanità, è necessario cercare di capirsi senza mistificare per brevità, cercare di analizzare la Cina senza renderla esotica.

Potrei dirti che mi ha colpita la pubblicità della Haier alla stazione di Padova, o che trovo allucinanti le attricette urbane ricoperte di Dior e Versace che si fanno filmare con i bambini moccolosi vestiti di stracci nelle zone più povere del Paese, impegnate nella peggiore autopromozione travestita da beneficenza, ma sarebbero immagini un po’ sterili, che non rendono la complessità.

Raccontare la Cina senza cadere nei soliti stereotipi è difficile. È un paese immenso, pieno di contraddizioni e con libertà di stampa e di opinione estremamente limitate. L’Occidente, da parte sua, fatica ad assorbire quelle notizie che non siano legate ai tempi record della crescita economica o alla carenza di diritti civili che diamo per scontati. Quali sono le difficoltà che ti sei trovata ad affrontare come giornalista in questo paese? Come ha influito sul tuo lavoro la conoscenza del cinese?

Una premessa: non uso in questo senso la parola “Occidente”, è una scorciatoia che mi sembra non definisca nulla il più delle volte: dov’è? Chi è? E’ unitario, ha dei punti in comune a parte essere un insieme molto imperfetto di democrazie, molto diverse fra loro? Ci sono divari enormi fra quello che si sa sulla Cina in Australia, in America o in Italia. Per cui è diverso se scrivo in italiano o se lo faccio in inglese.

In Italia direi che siamo a una dicotomia abbastanza strabiliante fra chi di Cina se ne occupa, anche da poco, e sa parecchie cose e il grande pubblico, che non ha idea e spesso è pronto a bersi le dabbenaggini più esotiche giusto perché lo fanno sognare.

Questo del voler sognare sulla Cina, d’altro canto, è un vero problema anche fra gli esperti, e qui credo in particolare europei e ancor più italiani: non so contare il numero di persone che vanno in Cina, o magari vi abitano anche da anni, perché hanno qualcosa di speciale da dimostrare su quello che è la Cina.

Il più delle volte che “i cinesi” (tutti uguali!) sarebbero in qualche modo i detentori di un’arcana saggezza, e che la loro società possa/debba/voglia essere un’alternativa ai nostri mali. E poi, c’è un desiderio tutto italiano di credere, almeno un po’, a parte della propaganda cinese, come se questa ci affrancasse dal dominio culturale anglosassone. Mah.

La conoscenza del cinese è uno strumento direi molto utile per occuparsi di Cina, ma è anche uno studio che non finisce mai, c’è sempre un carattere che non si sa leggere, un proverbio che non si era mai sentito prima e che s’interpreta nel modo sbagliato, o uno dei mille imbizzarriti neologismi da impararsi.

Però anche su questo non credo si possa generalizzare: conosco persone intelligenti capaci di leggere la situazione cinese mistificando anche meno di altri che pertanto hanno sudato per anni su toni e caratteri, e che sanno avvalersi di interpreti o assistenti che suppliscono senza eccessive lacune alla mancanza linguistica. L’atteggiamento conta ancor più degli strumenti, credo.

Quando e perché hai preso la decisione di vivere a Hong Kong? È per caso legata al lavoro che hai scelto di fare? Ci sono possibilità che tu possa tornare a vivere nella Cina continentale?

Diciamo che faccio “base” a Hong Kong dal 1997, anche se trascorro lunghi periodi in viaggio o da qualche parte in Cina o, meno spesso, in Giappone, per cui è un abitare un po’ movimentato. Il perché è composito – in parte, per la rilassatezza di essere in un luogo piuttosto libero (da Internet in poi), che però è Cina, e in una Cina un po’ più cosmopolita, dove la propaganda non regna sovrana e dove si riesce a pensare anche ad altro che alla Cina.

Poi, più conosco Hong Kong e più la trovo interessante e imprevedibile, e con una posizione geografica perfetta per chi, come me, non vuole cadere nell’ossessione monotematica che la Cina spesso produce su chi vi abita.

L’integrazione fra Hong Kong e il continente cinese sta avvenendo in modi imprevisti rispetto a quello che ci si era immaginato in precedenza – e vorrei essere capace di seguire quest’evoluzione, anche perché credo che Hong Kong sia un po’ la “prima frontiera” di come la Cina va verso il resto mondo. Non escludo affatto di tornare a vivere “nel continente” più a lungo, anzi, anche se devo vedere come lo dico ai miei polmoni.

Nel tuo ultimoLettere dalla Cina (Una Città, 2011) racconti la Cina dall’inizio del 2007 alla metà del 2011. In mezzo, il 2008 sembra essere un anno chiave: la Cina ospita le Olimpiadi e fa incetta di medaglie proprio mentre l’Occidente entra in un lungo periodo di recessione. Esplode l’orgoglio nazionale han. L’Occidente, l’Europa in particolare, ha già fatto i conti con le conseguenze mostruose a cui portano i nazionalismi, ma la Cina ci ricasca ciclicamente cosa che non ti stanchi mai di denunciare. Come spieghi l’importanza e l’uso diffuso che in cinese si fa della parola etnia (e che nei tuoi racconti non compare quasi mai)?

Altroché anno chiave! È l’anno di tutte le sorprese, non a caso lo scrittore Chan Koonchung dice che il suo romanzo “Shengshi” (“l’Età dell’oro”, più o meno, che vede una Cina che ha conquistato tutto e tutti e vive beata e immemore del passato), anche se ambientato nel 2013 è sul 2008.

Ma non ci vedrei troppi simbolismi: la Cina ha riempito il medagliere dopo una strategia estenuante volta alla vittoria degli ori costi quel che costi, e ha trascorso cinque anni interi con le Olimpiadi come priorità politica totale. Non sono sicura che questo proietti davvero un’immagine vincente, sicura di sé, di una potenza serena.

Vedo l’orgoglio nazionalista con orrore, come tutti i nazionalismi, che sia cinese o giapponese o europeo, è un impasto di menzogne e bestialità, e nel nostro caso, una dose inquietante di vittimismo. Spero che questo non porti a grossi problemi nel futuro, ma a volte me ne preoccupo, mi piacerebbe vedere maggiore preparazione da parte internazionale nei confronti di questo fenomeno, invece noto che mentre i governanti cinesi hanno una strategia e la perseguono, gli altri, sembrano sempre meno preparati, sempre in balia degli eventi, resi miopi da un vivere costantemente in campagna elettorale che impedisce ogni visione a lungo termine. Le nostre democrazie hanno davvero bisogno di darsi una scrollata!

Su molte questioni poi, dalla parola “etnia” in poi, la Cina risente in modo drammatico dei limiti che essa stessa si pone sulla libertà di dibattito. Provare a dire che “i cinesi” appartengono a gruppi diversi – non parlo delle 56 “minoranze etniche”, altra espressione priva di senso – suscita scalpore, e l’intero discorso viene ridotto alla sovranità nazionale: a niente altro.  È terribile, un paese così vasto, così ricco, con una storia così lunga, che ha deciso di impedire ogni analisi che abbia un po’ di respiro, e che riesce a dormire sonni tranquilli solo nell’illusione dell’uniformità.

Nell’ultima settimana a Hong Kong, la rabbia contro i cinesi ha assunto toni razzisti che ricordano le nostre più bieche campagne contro gli immigrati: sono tanti, non rispettano le nostre leggi e si approfittano dei nostri servizi. Puoi raccontarci un po’ cosa sta succedendo?

No, no, i due fenomeni non hanno assolutamente niente in comune, paragonarli è offensivo per Hong Kong. Ma è una questione difficile da far capire in due parole – ci provo, in ben più che due parole. Quelli che hanno chiamato “locuste” i cinesi “continentali” sono una minoranza non troppo intelligente, ma il problema è reale, e non certo legato a campagne contro gli immigrati che utilizzano i servizi italiani.

Il fatto è che Hong Kong, dal 1997 ad oggi, è stata trattata come una nuova colonia, e non solo le promesse fatte non sono state mantenute – prima fra tutte, quella del suffragio universale per l’elezione dell’interezza del Parlamento locale e del Capo dell’esecutivo, la più importante figura politica di Hong Kong — ma Pechino affronta tutti gli screzi solo in chiave economica. Ci sono problemi a Hong Kong? Incrementiamo gli scambi! Mandiamo più turisti!

Allo stesso tempo, viene imposto di avere l’inno nazionale prima del telegiornale, o l’educazione patriottica nelle scuole, dato che Hong Kong, si dice, non sarebbe abbastanza “cinese”. Chi l’ha definito che cos’è essere “cinesi”? Hong Kong non può accettare che “cinese” significhi “pro-Partito Comunista” (nemmeno Taiwan, e nemmeno tanti cinesi, ma per loro dirlo a voce alta è pericoloso).

Dicevo, non c’è suffragio universale, ma solo parziale. Ma anche così, alle ultime elezioni si sono scoperti grossi brogli a sostegno dei partiti pro-Pechino. A Hong Kong il rispetto delle regole è considerato importante, questo tipo di scandali creano vero sgomento, e approfondiscono la distanza che la popolazione sente nei confronti delle autorità centrali.

Ma non basta, ci sono gli attacchi sui giornali pro-Pechino alle maggiori figure politiche pro-democrazia, ma anche al Console Generale Usa, e al direttore del Centro sondaggi dell’Università, colpevole di aver riportato che Hong Kong no si è mai sentita più estranea alla Cina.

Nessuno mai ha chiesto agli hongkonghesi di scegliere il loro futuro, ora nelle mani di Pechino, un’entità a tutti gli effetti politicamente straniera al modo di vivere e alle caratteristiche culturali di Hong Kong. Pechino vuole che Hong Kong vari leggi “anti-sovversione” (l’ultima volta che ci ha provato c’erano un milione di persone a manifestare per la strada) e continua ad attaccare il sostegno locale nei confronti della memoria del 1989.

Gli esempi sono migliaia, ma tutti riconducono a questo: Hong Kong si sente depredata non solo dei posti in ospedale (e considera che 40mila partorienti inaspettate l’anno, in una città di queste dimensioni, non sono uno scherzo, e la pressione sulle strutture pubbliche non ha niente di razzismo, è reale) ma della sua stessa identità.

Ecco, a questa prepotenza politica e numerica, aggiungi che la classe dirigente locale, per quanto locale sia, è scelta da Pechino, e ha mantenuto un atteggiamento coloniale, dove vengono assecondati i “capi” (ieri a Londra, oggi a Pechino) e non sono ascoltati gli abitanti.

Il divario fra la popolazione e i governanti è molto ampio – per un sacco di ragioni complesse, non voglio farti un trattato, ma concludo ricordando che a tutto ciò, ora, si aggiunge che a forza di nuovi ricchi che vengono qui a fare acquisti di lusso, la Cina ha esportato la sua inflazione, portando a rincari terribili nell’immobiliare e in tutti i beni di consumo… Un cocktail molto compesso. 

Siamo entrati nell’anno del Drago. Secondo l’oroscopo cinese sarà un anno di grandi cambiamenti. A ottobre cambieranno i vertici del Partito e dello Stato. Hu Jintao ci lascia un Paese sempre più potente a livello internazionale, la Riforma culturale e la voglia di espandere il soft power cinese. Ma le contraddizioni interne sono sempre più esplosive: bolla edilizia, divario sempre maggiore tra pochi sempre più ricchi e molti sempre più poveri, focolai di rivolta in Tibet, Xinjiang e Mongolia, una classe media sempre più scontenta… Ti sei fatta un’idea della direzione che prenderà la Cina con il nuovo cambio di leadership?

Non credendo agli oroscopi, trovo da morire dal ridere che tutti noi che guardiamo agli sviluppi sociali, politici ed economici della Cina ci ritroviamo a riflettere su cose del genere. È la dimostrazione di fino a che punto il Partito resta opaco, e la sua gestione del Paese restia alla modernità, malgrado le esteriorità. 

Il che, credo, è importante per parlare della direzione che prenderà la Cina: bisogna aspettare che la nuova leadership si riveli, ovvio, però è evidente che Xi Jinping è l’uomo del consenso, un apparatchik di Partito che sa di dover tutto al Partito, e non ha alcun interesse, specie nei primi anni del suo mandato, a sfidare lo status quo.

Aspettiamo e vediamo cosa succederà, ma il recente dramma intorno alla figura del super-poliziotto Wang Lijun mostra quanto violente siano ancora le lotte all’interno del Partito. Non sono sicura che siano di natura ideologica, ormai, ma solo di puro posizionamento per il potere.

La situazione alle frontiere dell’impero è molto dura – non sono solo focolai di rivolta, sono culture che lottano per la sopravvivenza ma che hanno davanti una forza enorme, mille volte più grossa di loro, e nessun santo in Paradiso che li difenda. È una situazione tragica che la Cina per prima, e il resto del mondo, hanno spazzato sotto il tappeto come costo umano “inevitabile” largamente indifferente alla maggioranza.

In parte, lo stesso vale per gli svantaggiati, per la povera gente che non fa parte delle élite. Potranno ribellarsi, verrà il loro turno un giorno? Stiamo a vedere, temo che le cose continueranno ad essere dure per loro nei prossimi tempi. Per quanto riguarda il soft power cinese… come ti dicevo sopra, quello che più sgomenta è la passività con cui molti, all’esterno, vogliono credere a un’alternativa cinese panacea dei nostri mali, ma come senza riflettere.

Che soft power si può avere quando si è l’unico Paese con un Premio Nobel per la Pace in prigione, si arrestano poeti e artisti, e si sbandiera solo un nebuloso “confucianesimo”, che fino a ieri era messo a fuoco, pur avviluppandosi in un nazionalismo vittimista che ripete a sé stesso di non voler dimenticare “l’onta subita”?

Così facendo, la Cina fa un disservizio soprattutto a sé stessa: ha una cultura ricchissima, sfaccettata, una moltitudine di meraviglie tanto contemporanee che antiche, ma viene tutto inscatolato in un unico contenitore che deve essere approvato dalle autorità. E questa è una perdita per il mondo intero.

* Ilaria Maria Sala è una giornalista e una sinologa che ha vissuto gli ultimi vent’anni tra Pechino, Tokyo e Hong Kong, dove ha scelto di stabilirsi. Scrive principalmente per la
Stampa e il Wall Street Journal. Lettere dalla Cina (Una città, 2011) è il suo ultimo libro e raccoglie materiale dall’inizio del 2007 alla metà del 2011.