Cosa significa comprare un buon tè tra Pechino, Parigi e Hong Kong. Qui si racconta di taoismo, nuovi ricchi e del tè che era esclusiva proprietà del Partito comunista. China Files vi regala una delle tante Lettere dalla Cina (per gentile concessione dell’autrice e della casa editrice Una Città).
Cari amici,
ero vicino allo Stadio dei Lavoratori, nel quartiere di Sanlitun a Pechino, e proprio davanti a me ho visto un negozio di tè che aveva l’aria attraente.
Grandi scatole di latta smaltate di verde sul bancone di legno e negli scaffali dietro, con le etichette scritte a mano in bei caratteri neri ed eleganti; e un’atmosfera da vero negozio di tè senza quei gadget terribili per impressionare chi si invita a berlo.
Dunque sono entrata, ho cercato di intavolare una conversazione sulle specialità del negozio con la commessa (che era simpatica come una porta di prigione e non mi ha assolutamente dato corda) e ho finito col comprare un tè verde piuttosto caro (ho speso quaranta euro per cento grammi) che non conoscevo, pensando che avrei imparato qualcosa di nuovo.
Il mondo del tè è un po’ come quello del vino; le varie regioni producono tè diversi, alcuni, come il pu’er, possono essere invecchiati, altri, i wulong, vengono solo fermentati per qualche ora, poi ci sono i tè verdi freschissimi tostati in una pentola di ferro, e via dicendo; infinite varietà e tipologie, tutte provenienti dalla stessa camellia sinensis, che possono regalare ore e ore di diletto e quella bella sensazione di saperne un po’ di più in un determinato campo, con il passare del tempo.
Purtroppo, malgrado il mio entusiasmo, la commessa continuava a non rispondere ai miei tentativi di conversare – anche se nel negozio, forse per i prodotti un po’ cari, non c’erano altri che me, e il tempo, volendo, ce l’avrebbe anche avuto. Pazienza. Le ho tirato fuori quattro parole a malapena, me ne sono uscita con il mio costoso pacchetto, chiedendomi se non fosse stata un’idea un po’ balzana spendere tanto, e sono tornata a casa per mettere l’acqua sul fuoco e gustare il mio acquisto.
Ahimè, mi era capitato uno di quei tè verdi di cui andavano matti alcuni poeti del passato, dove l’intero piacere è quello di “gustare il niente”, ovvero, il “wu” taoista, e per quanto mi ci sia messa con le migliori intenzioni, un sapore così blando non fa per me.
Vi racconto di questo mio costoso insuccesso perché quella dei negozi e delle sale da tè chic è una novità degli ultimi anni: man mano che si riscoprono cose che erano state trascurate, che i nuovi ricchi dettano al mercato il loro desiderio di acquistare tè che costano migliaia di euro per pochi grammi (la mia stravaganza non è stata delle peggiori possibili nel campo!), e che chi può permetterselo cerca di darsi un’aria di raffinatezza in più, ecco che il tè disponibile diventa migliore, il modo di servirlo più curato, e i conoscitori hanno lo spazio per l’apprezzamento più dotto.
Però anche in una tazza di tè si notano alcune delle contraddizioni più comuni della Cina di oggi.
La scorsa estate, a Parigi, ero passata al negozio di tè Mariage Freres, che è una delizia (oddio, devo aver speso troppo anche lì, mi sa), e sono rimasta molto stupita nel vederlo pieno di turisti cinesi intenti a comprare tè. Ho chiesto al manager come fosse possibile, e lui mi dice: “Oh, non ci stupiamo più. I cinesi vengono a mucchi! Perché conoscono le marche di prestigio, e comprano qui regali da riportare a casa. I più esperti comprano dei Darjeeling selezionati, oppure i nostri melange famosi. Altri comprano tè cinese, perché si fidano di più della nostra selezione che di quello che trovano sul mercato in Cina”.
E infatti, è così. Quando, pochi giorni dopo il mio avventato acquisto, ho parlato con un amico pechinese del mio costoso té che non sapeva di niente, mi sono sentita come una bambina: “non devi acquistare del tè in un negozio che non conosci! Non sai quello che ti stanno rifilando. Per il tè buono devi avere qualcuno che ti aiuti, qualcuno che può comprare direttamente dalle piantagioni, se no ti fregano!”. Quasi come comprare “l’olio buono” in Italia, con tutti che ti dicono sempre che solo il contadino da cui vanno loro lo fa come si deve.
Tornata a Hong Kong, sono andata da Fook Ming Tong, uno dei migliori negozi di tè che ci siano, e ho fatto la coda dietro una serie di turisti cinesi che volevano tutti acquistare del Da Hong Bao. E’ un wulong delizioso, non certo economico neanche quello, ma che ha un tale pedigree da renderlo imbattibile nelle aspirazioni dei nuovi ricchi: fino al 2005 le piante di Da Hong Bao, che crescono sulle montagne Wuyi nel nord del Fujian, producevano solo per il Partito comunista cinese.
Poi c’è stata una privatizzazione, sono stati prelevati dei gettiti delle piante e piantati anche altrove, e il Da Hong Bao (un gusto inizialmente un po’ amaro, quasi affumicato, che diventa via via più dolce, un sorso dopo l’altro e una tazza dopo l’altra, e che lascia in bocca un duraturo sapore di miele) ormai è diffuso sul mercato.
E lo sono anche le sue imitazioni. Così, la commessa di Hong Kong (un po’ più simpatica della pechinese) mi spiega che loro, a Fook Ming Tong, ordinano solo settanta scatole di Da Hong Bao l’anno, perché non riescono ad assicurare l’autenticità di quantitativi più importanti.
E quindi, i clienti vengono dalla Cina per riportarsi a casa un tè che lì è cresciuto, ma della cui autenticità, comprandolo in Cina, non si ha certezza. E se si compra il tè che era di esclusiva proprietà del Partito comunista, non ci si vuol far prendere in giro. [Hong Kong, marzo 2011] * Ilaria Maria Sala è una giornalista e una sinologa che ha vissuto gli ultimi vent’anni tra Pechino, Tokyo e Hong Kong, dove ha scelto di stabilirsi. Scrive principalmente per la Stampa e il Wall Street Journal. Lettere dalla Cina (Una città, 2011) è il suo ultimo libro e raccoglie materiale dall’inizio del 2007 alla metà del 2011.