Frienemy. La Cina vista dagli Usa

In by Gabriele Battaglia

E’ stata a lungo al centro della sfida Obama-Romney. Ma oggi la Cina non accumula soltanto ricchezza, la Cina la ridistribuisce. Lo dicono Krugman,  Kaminska e Higgins. Sta all’Occidente non farsi scappare l’occasione per uscire dalla crisi. E per trovare un altro capro espiatorio.

Prima che una folla di presunti fondamentalisti libici imponesse una diversa agenda di politica estera, il focus bipartisan della campagna elettorale Usa aveva quasi un unico obiettivo: la Cina.
 
La Cina è un “manipolatore di valuta” e la dichiareremo tale “dal primo giorno del mio insediamento alla Casa Bianca”. [Mitt Romney]

“Obama ha detto che avrebbe lottato fino in fondo [go to the mat, ndr] con la Cina, invece si fa trattare come uno zerbino [doormat, ndr].” [Paul Ryan, vice di Mitt Romney]

Bisogna migliorare il sistema educativo “per rafforzare la concorrenza con gli scienziati e gli ingegneri provenienti dalla Cina”, di modo che le imprese non debbano “cercare i lavoratori in Cina.” [Barack Obama]

“Non sei pronto per la diplomazia con Pechino se non sei in grado di fare un salto alle Olimpiadi senza insultare il nostro alleato più stretto.” [Barack Obama]

Se vogliamo sintetizzare, per l’amministrazione democratica guidata da Barack Obama la Cina resta un “frienemy” (terribile neologismo che però rende l’idea), mentre per Mitt Romney, lo sfidante repubblicano, il Dragone è un potenziale nemico. Si è parlato molto delle tensioni diplomatiche tra Washington e Pechino per la questione del Mar Cinese Meridionale, ma la Cina inquieta soprattutto per ragioni economiche.

È, in ottica Usa, soprattutto un problema di politica interna. Chi oggi ha meno di 50 anni può dirsi a ragion veduta figlio dell’ "economia dei galeotti incatenati” (chain gang economics), definizione del sociologo e politologo filippino Walden Bello che descrive quanto segue: a partire dagli anni Ottanta, capitali Usa (e occidentali in genere) finanziano il boom manifatturiero cinese; merci cinesi a buon mercato invadono gli Usa (e l’Europa); l’Occidente si indebita con la Cina; la Cina ricompra il debito Usa.

Per gli Stati Uniti, questo circolo è sia virtuoso sia vizioso: virtuoso perché le merci a buon mercato hanno un effetto disinflattivo, rivalutano i salari reali, permettendo a una fetta più grande di popolazione di accedere ai consumi; vizioso, perché il trasferimento delle manifatture in Oriente strozza il mercato del lavoro.

“Galeotti incatenati”, si diceva: se uno cade per terra, tira giù anche l’altro. Così, per esempio, la Cina si è molto arrabbiata con gli Usa per la crisi cominciata nel 2008: ma come – ripetono da anni a Pechino – non ci riempiamo i forzieri dei vostri dollari e confidiamo nei vostri consumi e voi, per insipienza finanziaria, mandate tutto a rotoli. Quindi la Cina ha cominciato a diversificare le proprie riserve e pianifica di dare un nuovo status internazionale al renminbi come valuta di riserva.

D’altra parte, a Washington e dintorni strillano contro la presunta sottovalutazione del renminbi stesso, che darebbe più competitività alle merci cinesi rispetto a quelle Usa, accusano i cinesi di violazione dei brevetti e così via. Ed eccosi dunque ai nostri Obama e Romney, che cercano di intercettare consenso per interposta Cina.

Ma l’economia dei galeotti incatenati è ancora attuale? Il fatto che la Cina continui a comprare il debito Usa è così irrinunciabile? I cinesi fanno inevitabilmente perdere il lavoro agli americani? Secondo alcuni autorevoli economisti Usa, non è più così. A lanciare il sasso è stato il premio nobel Paul Krugman, ripreso poi da Izabella Kaminska sul Financial Times e da John Higgins di Capital Economics.

In un periodo di crisi c’è un eccesso di risparmi rispetto agli investimenti. Comprando bond americani, la Cina, oltre a sorreggere il debito Usa, non faceva che aggiungere risparmi ai risparmi e questo deprimeva l’economia. In questa fase – dicono gli economisti di cui sopra – bisogna invece auspicare che ne compri meno e, sorpresa!, è proprio quello che sta accadendo.

I dati ci dicono che altri investitori internazionali stanno ormai comprando bond Usa molto più della Cina, che li sta invece vendendo perché non offrono più rendimenti cospicui e per avere la liquidità necessaria a contrastare le proprie difficoltà interne. I flussi di denaro si stanno invertendo, la ricchezza non si accumula più nei forzieri cinesi, ma viene in parte ridistribuita al mondo.

La Cina sta in pratica restituendo ricchezza. È, questa, un’occasione da cogliere per rilanciare l’economia occidentale, gli investimenti, il lavoro, la produzione. A patto che in Occidente si abbia voglia di ritornare a un rapporto più equilibrato tra civiltà dei consumi e nuova, rinnovata civiltà del lavoro.

Sembra quindi, almeno a sentire questi economisti, che la propaganda elettorale made in Usa arrivi in ritardo su processi già in corso: la Cina non è più un capro espiatorio plausibile (lo è mai stata?). Il dibattito continua, la campagna elettorale idem.

*Gabriele Battaglia e’ stato corrispondente da Pechino per "PeaceReporter" ed "E-il mensile". Ha cominciato come web-giornalista e si e’ misurato poi con diversi media e piattaforme. In una vita   precedente, e’ stato redattore di Virgilio.it e collaboratore di un certo numero di testate sui piu’ disparati temi: dalla cultura alla divulgazione scientifica, passando dai trattori e dalle fotogallery su Britney Spears. E’ autore, con Claudia Pozzoli, del webdocumentario "Inside Beijing". Oltre che la Cina e l’Oriente in genere, gli piace l’Artico, sia per interesse giornalistico sia per il clima. Non ha ne’ l’automobile ne’ la Tv e ogni tanto si fa male cadendo in bicicletta. Vive tra Pechino e Milano.