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Ecco lo “scudo” Ue alla guerra commerciale di Pechino

In Cina, Economia, Politica e Società by Sabrina Moles

L’Unione europea (Ue) spinge per l’implementazione dell’Anti-Coercion Instrument (Aci), un meccanismo per contrastare le ritorsioni commerciali. Uno strumento che guarda soprattutto alla Cina che, però, nel frattempo sta cercando di riprendere i rapporti commerciali

Tre contro tanti, o uno soltanto? Martedì 28 marzo le tre principali istituzioni europee hanno fatto passi avanti nella strategia di contrasto alla “coercizione economica” dei paesi extra-Ue. Le misure incluse nell’Anti-Coercion Instrument (Aci) sono state approvate all’unanimità da Parlamento, Consiglio e Commissione europea. Lo strumento anti-coercizione verrà formalizzato, si legge nel comunicato, con il raggiungimento di una piena “conclusione politica” sui dettagli tecnici. L’Aci permetterà ai decisori europei di determinare se un membro dell’Unione è soggetto a coercizione economica, e adottare delle contromisure. Tali ripercussioni, precisa la nota, verranno attuate “come ultima risorsa quando non vi è altro modo per affrontare l’intimidazione economica.”

Il nuovo meccanismo era stato proposto inizialmente alla fine del 2021. Le “deliberate pressioni economiche” a cui fanno riferimento le istituzioni Ue – sebbene senza mai citarlo apertamente – risalgono infatti a uno dei momenti più bassi delle relazioni con la Cina. Prima sono arrivate le sanzioni contro alcuni soggetti cinesi accusati di violazione dei diritti umani nella regione autonoma dello Xinjiang, le prime in trent’anni. Nello stesso periodo l’Ue ha congelato uno storico accordo sugli investimenti con Pechino a pochi passi dalla ratifica. Poi sono iniziate le tensioni con la Lituania, che a maggio ha lasciato il gruppo “17+1” impegnato nel rafforzamento delle relazioni tra la Cina e l’Europa centro-orientale e in settembre ha aperto un ufficio di rappresentanza di Taiwan. A dicembre, Pechino ha risposto bloccando le esportazioni in arrivo da Vilnius.

Lo strumento commerciale non è nuovo a Pechino e comprende lo stop delle importazioni, un aumento significativo dei dazi su alcuni prodotti, oppure l’improvvisa inclusione delle aziende chiave nelle “liste nere” dei prodotti non conformi alle leggi cinesi. È il caso dell’Australia che, dal 2018, ha attirato le ire della Cina per aver bandito Huawei dai progetti per la rete 5G e, successivamente, per aver sostenuto le indagini Oms sulle origini del Covid19 in Cina. Pechino ha risposto imponendo restrizioni su beni strategici come cotone, carbone, carne e legname. Misure che, sottolinea il think tank australiano Lowy Institute in un report pubblicato nel 2022, non avrebbero avuto gli effetti catastrofici paventati da Canberra. Almeno nel breve periodo. Nonostante la ripresa dei negoziati con l’arrivo del governo Albanese, avvertono gli analisti, “il costo dei divieti commerciali e di altre misure punitive aumenterà man mano che diminuiscono gli investimenti cinesi in Australia e cresce il costo della diversificazione dalla più grande economia della regione”.

Una relazione complessa

In parallelo all’iter di approvazione dello strumento anti-coercizione, l’Unione europea ha avanzato una controversia nei confronti della Cina presso l’Organizzazione mondiale del commercio. “È deplorevole che, nonostante i suoi sforzi per risolvere la questione a livello bilaterale, la Cina non abbia rimosso le misure discriminatorie e coercitive [nei confronti della Lituania, ndr.]”, hanno detto i delegati Ue in occasione della convocazione del 27 gennaio. “La Cina si è rammaricata della decisione dell’Ue di portare avanti la sua richiesta e ha affermato di attribuire grande importanza ai suoi impegni con l’Omc”, ha risposto Pechino. 

Nel frattempo, il commercio con la Cina rimane uno dei mercati più attraenti per la leadership europea, che spera di rientrare dalle visite ufficiali di inizio aprile con qualche accordo in tasca. Il presidente cinese Xi Jinping riceverà infatti la presidente della Commissione Ursula von der Leyen e il presidente francese Emmanuel Macron, e a seguire il premier spagnolo Pedro Sánchez. La stessa von der Leyen ha chiarito in un intervento ospitato dai think tank Merics ed European Policy Center che lo scopo dell’Ue nelle relazioni con la Cina deve essere quello di perseguire “la riduzione del rischio (de-risking), anziché del disaccoppiamento (de-coupling”. Come ricorda un funzionario Ue intervistato da Politico: “La Cina non è perfetta, ma un giorno potremmo averne bisogno. Diversi Stati membri condividono questa valutazione”. 

Dall’altro lato del globo Pechino sembra aver adottato un approccio momentaneamente meno aggressivo sul piano commerciale. A soli tre mesi dall’abbandono della strategia “zero Covid” è ancora difficile misurare l’impatto della pandemia sull’economia cinese. Lo scorso ottobre la Cina aveva registrato il primo calo delle esportazioni (-6,8%) dall’inizio del 2020, e il trend non sembra ancora destinato a invertirsi. Anche le importazioni registrano un calo superiore alle previsioni di ripresa degli analisti. Non aiutano le misure adottate da Washington per escludere Pechino dalle catene globali high tech. Proprio dagli Usa arriva una proposta analoga all’Aci europeo sostenuta dai Democratici perché, sostiene il promotore Ami Bera, “gli Stati Uniti devono sviluppare degli strumenti specifici per aiutare alleati e partner in tutto il mondo a contrastare la coercizione economica della Cina”.

Di Sabrina Moles

[Pubblicato su Il Manifesto]