Tutto cominciò con il MIDI (sui festival musicali cinesi, 1a parte)

In by Simone

Correva l’anno 2000 quando si svolse l’antesignano dei festival di musica rock cinese. Era la prima edizione del MIDI Music Festival, patrocinato dall’omonima scuola di musica. La MIDI school è oggi il simbolo per eccellenza della nascita del rock cinese: fondata da Zhang Fan nel 1993 con l’obiettivo di crescere nuove generazioni di artisti, provvedeva a una formazione tecnica che spaziava dal rock al pop, dal blues al jazz, dal country alla musica latinoamericana.

Dalla MIDI school sono usciti molti dei musicisti che sono andati a infoltire il panorama rock cinese di seconda generazione, su tutti Xie Tianxiao, ma anche membri di Muma, AK-47, New Pants, Miserable Faith, Muma, Sound Fragment, Subs, Hanggai e Second Hand Rose, solo per fare i nomi principali. Le prime edizioni del MIDI festival ospitavano artisti provenienti per lo più dai corsi della scuola. Perso nella campagna ai margini della capitale cinese, il festival rappresentava qualcosa di simile a una sfida sociale, che si scontrò con la resistenza dei contadini locali e della polizia. Povero di attrezzature e di organizzazione, si trattò in origine di un evento lontano dal suscitare le simpatie delle autorità. Inoltre fu ristretto a pochi amanti del genere, ben distanti dai valori della società cinese, che fossero il tradizionalismo delle mondo contadino o l’ambizione economica delle grandi metropoli.

Anche con il passare del tempo, in anni particolari (vedi il 2003 con la fobia SARS o il 2008 poco prima l’inizio delle Olimpiadi di Pechino), l’organizzazione del MIDI Festival si è scontrata con ostruzioni governative mai chiarite fino in fondo, che sono sfociate nella posticipazione o addirittura nella cancellazione del festival. Eppure quella piccola base di consenso non si è arrestata, anzi.

Oggi il MIDI festival attira migliaia di giovani e rappresenta il fulcro storico delle attività live cinesi. Accanto al MIDI gli eventi si sono moltiplicati a dismisura: il nome più fresco è quello dello Strawberry Music Festival, attivo dal 2007. Organizzato inizialmente solo a Pechino, oggi lo Strawberry ha già raggiunto altre città del paese, sotto la spinta della Modern Sky Records, una delle principali label indipendenti cinesi, che vanta –tra l’altro- la distribuzione in Cina di band come Radiohead, Mogwai e Bauhaus.

Altri appuntamenti fissi sono lo Zebra Music Festival di Chengdu, con sonorità pop e sponsor di primo piano, lo Snow Mountain di Lijiang, il Westlake di Hangzhou e il Grassland Music Festival di Zhangbei (dove nel 2009 si è esibito Tricky), solo per citare i più chiacchierati negli ultimi anni. Ci sono due periodi chiave: il primo all’inizio di maggio, a cavallo della festa del lavoro, il secondo ai primi di ottobre, in coincidenza con la festa della repubblica.

Dopo i rigidi e secchi freddi pechinesi, in aprile è possibile respirare accenni di aria primaverile e i festival di maggio appaiono nella veste di un desiderio irrefrenabile di un prato su cui stendersi, ascoltare musica, o far librare frisbee e aquiloni (a seconda delle età e delle provenienze geografiche).

1 maggio: musica in cattività

Assieme a un gruppo di persone di diversa provenienza geografica salgo sul bus allestito dagli organizzatori del China Music Valley International Music Festival. Dagli zaini dei compagni di viaggio traboccano racchettoni, teli, scacchiere, creme solari, frutta, una moderata –ma neanche tanto- quantità di alcolici e, per sentirsi un po’ più a casa, una pastiera napoletana in piena regola pervenuta nel bagaglio di conoscenze provenienti di fresco dall’Italia. In sintesi l’atmosfera era più da litorale adriatico che da zaino in spalla on the road, ma vivere all’estero aiuta a riscoprirsi italiani, più di quanto si possa pensare di primo acchitto. Destinazione comune uno ski resort nei dintorni di Pinggu, località come tante della provincia cinese.

È qui che è ospitata la due giorni del China Music Valley International Music Festival, un nome nuovo tra quelli degli appuntamenti musicali annuali cinesi. Tra gli organizzatori figurano i nomi di Gehua e Live Nation, la cui partnership ha recentemente portato in Cina Bob Dylan. È subito chiaro che l’evento ha goduto del patrocinio esclusivo del governo locale: nessuno sponsor e pochissimi partner figurano nei volantini e nei programmi, tuttavia è una delle primissime volte che in Cina appaiono tanti nomi internazionali dal cachet non indifferente. Divisi in due giornate, si sono esibiti tra gli altri Editors, Hot Hot Heat, Ladytron, Juliette Lewis, KT Tunstall, Little Boots e Avril Lavigne. La sensazione che ci siano di mezzo i soldi del governo si rafforza man mano che ci avviciniamo agli ingressi.

A non essere ammessi, oltre alle bottigliette preventivate, ci sono racchettoni, accendini e –strano a dirsi- tutti gli alcolici, che decidiamo di conservare per i festival dei prossimi giorni. Per evitare Avril abbiamo scelto il secondo giorno di festival, ma a giustificazione dei controlli severissimi si mormora che nella giornata precedente ci siano stati problemi di “ordine pubblico”. Il risultato è stato il divieto di consumo di alcolici –non è consentita persino la vendita di birra- il divieto di fumare e una schiera di polizia che complica oltre misura l’accesso alle aree ascoltatori situate al centro del resort, davanti ai due palchi su cui si avvicendano le band. Il controllo della folla è ribadito dai messaggi trasmessi sugli schermi tra i vari show, con richiami paternalisti a non giocare con il fuoco, a divertirsi senza eccessi e a non alzare il gomito.

L’allestimento è monumentale, con palchi che potrebbero essere diretti a grandi folle; allo stesso tempo però i punti vendita commerciali sono ridotti all’osso, dando vita a uno scenario privo di fenomeni di commercializzazione di massa. Il pubblico appare contenuto, come impone il più classico degli stereotipi sulle esibizioni live cinesi, intento più che altro a ripararsi dal sole con ombrellini o a mandare messaggini dall’aria annoiata, mentre i pochi appassionati del genere si limitano a fare bella mostra di un look di tendenza e delle rituali corna levate al cielo. I palchi da grande occasione restano un’opportunità andata a vuoto, con un afflusso al di sotto di qualsiasi aspettativa, ma probabile che il pienone si sia visto nella prima giornata, per via della rara apparizione di Avril Lavigne in terra cinese. Già, gli artisti.

Alquanto deludenti le esibizioni del pomeriggio, con dive taiwanesi che era più spontaneo immaginare a loro agio tra una platea di gala cinese (avvicinabile allo stile sanremese ma con sbrilluccichii kitsch moltiplicati all’ennesima potenza) piuttosto che a un festival musicale. Little Boots non è stata in grado di liberare al pubblico la sua presunta carica pop. Era la prima volta che avevo l’opportunità di vedere gli Hot Hot Heat dal vivo e –chissà, forse complice l’atmosfera generale- la delusione è stata diffusa. L’impressione è stata quella dell’esecuzione di un compito discreto ma con poca anima e (soprattutto) poco sudore, lasciando molto da dire a chi leva voci critiche contro il macro-immaginario contemporaneo indie-pop e indie-rock.

Gli apici toccati dalla scena canadese con lavori come Funeral e Apologies to the Queen Mary sembrano lontani per questo filone musicale, sempre più piegato alle esigenze di un’industria non mainstream alla costante ricerca di nomi semi-sconosciuti, capaci di assurgere a un successo di critica e sulla rete per un album o poco più; o tutt’al più buoni da offrire agli amici meno informati. Le cose sono migliorate con il passare delle ore, specie dopo il concerto dei Ladytron, perfettamente a loro agio sul freddino palco cinese e contemporaneamente in grado di spingere la folla a ballare (e persino a chiedere un bis) con la forza dei loro pezzi più che con la loro algida presenza. L’apice della serata è stato il concerto degli Editors, tagliato per oscure ragioni e su cui (musicalmente parlando) avevo diversi pregiudizi non del tutto dissolti.

A loro va però riconosciuta una personalità sul palco inaspettata, viene da dire da festival vero, sfoggiando padronanza di mestiere e di strumenti, un’identità musicale composita e ben definita e a tratti una saltuaria introspezione cantautoriale in grado di esaltare la figura leader di Tom Smith. A chiudere, senza rimpianti per una giornata onestamente troppo lunga –sarà la vecchiaia ma non solo-, KT Tunstall, intenta in esecuzioni sempre troppo restie a mettersi alle spalle sonorità e immaginari mainstream. Come a sintetizzare l’essenza di un evento più volto a guadagnare (senza peraltro riuscirci) copertine, ma senza sapere, né volere, stupire artisticamente parlando.

[La seconda parte verrà pubblicata domani giovedì 2 giugno 2011] [L’articolo completo è stato pubblicato su SentireAscoltare]