Tibet: la lunga linea dell’incomprensione

In by Simone

A quasi un anno di distanza dai disordini che hanno colpito l’intero Tibet, la popolazione dell’altopiano sembra volersi riprendere lentamente l’attenzione dei media di tutto il mondo. Sono i frammenti di malcontento che riescono a vincere il silenzio ufficiale e sfidare tanto la propaganda governativa, quanto le intimidazioni militari. E’ un periodo di ricorrenze e nuove tensioni: le celebrazioni del capodanno tibetano, ieri, e gli imminenti anniversari, il primo dalla rivolta del 2008 e il cinquantesimo dall’esilio del Dalai Lama e dall’abolizione del governo tradizionale tibetano.

Gli anniversari delle festività tradizionali hanno rappresentato già in passato un momento delicato nei rapporti fra han e tibetani, come fu evidenziato in occasione delle rivolte che si susseguirono a Lhasa alla fine degli anni ottanta. Nel 1988 la celebrazione del capodanno tibetano, trovò nella manifestazione esclusiva dell’identità tibetana un motivo di condivisione, che divenne poi protesta e commemorazione di quei tibetani che avevano perso la vita durante la prima sollevazione nell’ottobre del 1987. Oggi tutto appare diverso e da alcuni mesi, da Dharamsala ai blog di intellettuali tibetani, rimbalzano gli appelli per boicottare le celebrazioni del Losar («nuovo anno») e sostituire ai festeggiamenti un raccolto compianto per i tibetani caduti lo scorso marzo. Al punto che in alcune regioni i funzionari cinesi sembra abbiano cercato di incoraggiare la popolazione a festeggiare, sovvenzionando l’acquisto dei fuochi artificiali. C’è chi non capisce le ragioni del boicottaggio, chi si rinchiude in dichiarazioni sospese tra echi propagandistici e coscienza dello sviluppo materiale che la Regione Autonoma Tibetana ha vissuto negli ultimi decenni.

C’è anche chi ha già preso l’iniziativa. Lithang e Nagchu non sono solo dei piccoli punti sulle mappe del Sichuan e della Regione Autonoma Tibetana, ma anche dei nomi spesso associati al malcontento dei tibetani. A Lithang la storia dell’ultimo decennio è costituita da tante denunce per arresti, spesso causati solo dall’avere invocato il nome del Dalai Lama. E anche il 16 febbraio di quest’anno, secondo il rapporto di due associazioni di monitoraggio e sostegno del Tibet, il malcontento popolare si sarebbe scatenato per l’arresto di un monaco buddhista che aveva scandito slogan indipendentisti e pro-Dalai Lama. A Nagchu invece la protesta sarebbe nata il 19 febbraio in seguito a una lite automobilistica fra un camionista tibetano e un tassista han, degenerata in un assalto incendiario contro le automobili della polizia. Ai due incidenti sarebbe seguito l’arresto di alcune decine di persone.

Piccoli incidenti, con stime e dinamiche non confermate o negate dalle autorità cinesi. Ma è da incidenti identici a questi che sono scaturite, giorno dopo giorno, le rivolte della fine degli anni ottanta e la sollevazione di marzo dello scorso anno. La risposta della Repubblica Popolare Cinese è la chiusura: la Regione Autonoma Tibetana sarà ufficialmente off limits per il turismo fino ad aprile 2009 e molte delle regioni a maggioranza tibetana inglobate nelle quattro province cinesi del Qinghai, del Sichuan, del Gansu e dello Yunnan sono inaccessibili ai giornalisti e agli stranieri dalla metà di febbraio, senza giustificazioni o con commenti laconici che richiamano alla necessità di mantenere “stabile” la regione durante la festività.

Chiusura, ma anche propaganda: per celebrare il cinquantesimo anniversario della destituzione del governo tradizionale di Lhasa, Pechino ha istituito il Giorno dell’Emancipazione dalla Schiavitù, condito con un revival di slogan ideologici e anti-reazionari. Una nuova provocazione per il Dalai Lama. Intimidazione, infine, celata dietro strane coincidenze: da dicembre a oggi sono state pronunciate diverse sentenze di condanna per i partecipanti ai disordini del 2008. In tutto 76 persone coinvolte, condanne a un anno, due, quindici, in alcuni casi l’ergastolo. E la notizia raggiunge anche i quotidiani cinesi, a differenza dei disordini di Lithang e Nagchu. Sono intimidatorie anche la militarizzazione, che colpisce diverse zone del Tibet,  il proseguo delle campagne di rieducazione nei monasteri, che solo da pochi mesi si erano svuotati dei soldati, e le campagne di arresti.

La chiamano strike hard campaign, nei fatti è una mobilitazione poliziesca che passa in rassegna luoghi pubblici e abitazioni private alla ricerca di sospetti. Si tratta di una specie di guerra a bassa intensità, come quelle dell’America Latina. A Lhasa la campagna è stata istituita da un distaccamento dell’Ufficio per la Sicurezza Pubblica ed è condotta in collaborazione con un corpo speciale anti-sommossa, la Polizia Popolare Armata. Strike hard campaign è stata lanciata il 18 gennaio con lo scopo ufficiale di garantire la tranquillità dei festeggiamenti. La stampa cinese evidenzia come essa colpisca comuni criminali, borseggiatori, ladri e prostitute. Lo scopo, come si evince nella lettura del documento di lancio, è perquisire a tappeto alla ricerca di qualsiasi “minaccia” alla stabilità.

Dopo l’eco che le notizie ufficiali hanno provocato nella stampa e nel web, la pubblicazione dei dati riguardo la campagna si è interrotta, e un sito di un quotidiano di Lhasa che aveva reso pubblici i primi risultati è rimasto oscurato per alcuni giorni. Le stime raccolte parlavano chiaro: dopo la prima settimana erano stati perquisiti 30 compound, 33 ostelli e alberghi, 56 internet café e pub, più di 3000 abitazioni e 8000 persone. In tre giorni sono stati fermati più di 5000 sospetti, dopo sette giorni sono state trattenute 148 persone prive del permesso di residenza temporaneo e 81 criminali, tra cui ladri, prostitute, uomini in possesso di armi da taglio e due persone con «canzoni e conversazioni reazionarie memorizzate nel cellulare».

In Tibet la storia non insegna mai niente. La dialettica dello scontro ideologico sembra non avere fine, si è rinnovata negli anni e si ripropone nella ciclicità della rivolta. In Tibet si soffre e si muore ancora, in una contesa lunga ormai decenni in cui valori come quello della storia, degli ideali democratici e della liberazione assumono significati opposti e contraddittori.

In Tibet, infine, si aspetta: l’anniversario non è più un momento di riconoscimento nella tradizione e nella memoria storica di un popolo, ma un mantra ripetuto instancabilmente a memoria dei caduti e dell’odio versato.

[foto da NYT]