The Leftover of the Day – Quadratura del cerchio

In by Simone

Necessario strumento di autosupporto per digerire i fraintendimenti e le inquietudini quotidiane. Quando ogni sforzo di dialogo interculturale cede davanti alla bieca logica capo-dipendente.
31 maggio 2010, 18:11
Quadratura del cerchio

Sabato mattina. Accompagno all’aeroporto l’ormai ex-corrispondente dall’Italia. Da quando i ruoli lavorativi si sono diluiti il nostro rapporto è cambiato visibilmente. Riusciamo persino ad avere un minimo contatto fisico, che è stato – giustamente – bandito durante questi tre anni. Appena lo vedo, gli metto una mano sulla spalla e gli chiedo come sta. La sua espressione è eloquente.

Poi fa una serie di gesti che azzerano totalmente le mie riserve e che quasi quasi mi farebbero venire voglia di cancellare tutti i poco benevoli commenti su di lui in queste pagine… però anche quelli fanno parte della complessità e della stranezza di questo rapporto.
Mentre andiamo verso Fiumicino, estrae l’album dell’Italia su cui lavora ormai da qualche settimana: un ibrido tra il diario personale e il report lavorativo, costituito principalmente da foto. È stato a stampare fino alle 5 del mattino. E il risultato è commovente tanto che mi scivolano silenziose lacrime sulle mani che lo scorrono.

Ci sono foto mie, di gente intervistata, buffi accostamenti di personaggi e luoghi, brevissime didascalie in italiano: su una in particolare mi commuovo. È una foto di lui con S., un ragazzo con cui ha collaborato e che è diventato anche suo amico. Nella foto sono loro due. Il lato in cui compare lui è piegato a metà, sull’altro c’è S. e sotto c’è scritto: amico. Aprendo l’altra metà compare anche la sua faccia e sotto si legge: amici.

Prendiamo un caffè prima di salutarci. Mi dice: “Ho una proposta per te”. Tira fuori dalla borsa un cartoccio con dentro la tazzina che ha usato in ufficio in questi anni e che si era portato dal Giappone: c’è scritto good luck cup: “I want to do catchball with you”. “I have no idea of what catchball is”, gli dico ridendo. Così lui mi spiega cosa intende: io terrò la tazzina fino alla prossima volta in cui ci incontriamo, gliela ridarò in quella occasione, e lui la terrà fino alla successiva, e così via. Una specie di giuramento tra bambini che solo un giapponese può proporre.

Perché lui è stato così: rigido, arrogante, presuntuoso, prepotente, ma anche teneramente infantile, a volte persino preoccupantemente infantile (come quando, nonostante la mia espressione allibita, si stampò la faccia ingrandita di Andreotti per mettersela addosso e farsi fotografare con schiena ingobbita e mani incrociate in grembo). Ed è un tipo di sensibilità che riesco a riconoscere solo ai giapponesi, forse perché – azzardo – castrati come sono dalle loro regole e procedure, sanno d’altro canto mantenere un lato di puerile genuinità che preservi incontaminata la sfera dell’intimità.

Penso a quando parlavamo di Yocci, un’illustratrice giapponese: lui diceva di non amare particolarmente quel genere di disegno, ma io posso vedere in lui la stessa logica, la stessa sensibilità.
Non me lo riesco proprio ad immaginare un 46enne, per di più giornalista e italiano, fare qualcosa di analogo.

Ci salutiamo prima dell’accesso ai metal detector e finalmente riusciamo a scambiarci un lungo abbraccio.
Ho la percezione, dolorosa più di quanto pensassi, della chiusura di una parabola, netta e perfetta nella sua struttura (ma, ammetto, che forse se fosse rimasto molto più a lungo saremmo potuti finire nella cronaca nera: giornalista italiana uccide corrispondente giapponese in Italia… O forse no).
Mi ritrovo a piangere e a chiedermi se poi davvero ce la scambieremo questa tazzina.

Quanto al nuovo arrivato, aspettiamo a giudicare. Per ora qualche sporadica chiacchiera e una discreta dose di nipponica cortesia – che va benissimo, per carità. Lui non sempre capisce il mio inglese, io non sempre capisco il suo. Come poco fa: mi ha chiesto di stampargli un report, e ha aggiunto: “solo il documento che si chiama Iran report”. Controllo la mia mail, ancora non è arrivato, così gli dico: “Not arrived yet” e lui di tutta risposta mi fa: “Yes, only the Iranian one”. La mia non era neppure una domanda. E vabbè.

Per ora comunque sembra fattibile: oggi non indossa nemmeno la giacca, ma solo la camicia (se continua così, a togliere pezzi giorno dopo giorno, ad agosto arriverà in perizoma).

*Lavoro per un giornale giapponese, ma in Italia. Non parlo giapponese, ma passo le giornate a discutere con un giapponese: il mio capo. Ne ho cambiati diversi, eppure molte questioni sono rimaste le stesse. Ce n’è una, poi, a cui proprio non so dar risposta: che ci faccio qui? (senza scomodare Chatwin per carità