Necessario strumento di autosupporto per digerire i fraintendimenti e le inquietudini quotidiane. Quando ogni sforzo di dialogo interculturale cede davanti alla bieca logica capo-dipendente.
3 dicembre 2009, 01:20
Life is difficult, isn’t it?
Cominciamo dalla fine della giornata. Siamo a Bologna. Hotel quattro stelle, cena a base di tartufo, non mi posso proprio lamentare. Io e lui, come una consumata coppia. Tanto che ormai spesso inizia una qualsiasi frase con questa premessa: “I think I told you this before…”, e comunque, di qualunque cosa si tratti, già detta o meno, la ripete. Siamo in ascensore diretti ognuno alla propria stanza e quando arriva al suo piano, il terzo, con gesto teatrale mi dice: “Life is difficult, isn’t it?”, per sparire poi dietro alla porta automatica senza sentire la mia accorata risposta: “Yes, it is”.
La frase è la chiosa di una lunga chiacchierata, coadiuvata da sangiovese prima e da rum (per me) e jack daniels highball (per lui) poi. Il che aiuta a coltivare un po’ di sincerità in più. La conversazione è ruotata intorno alla presenza dell’altra ragazza in ufficio, per intenderci quella ormai entrata nell’occhio del ciclone. Dunque, in fin dei conti, si è parlato del modo di intendere i rapporti.
Come spesso accade, quando si parla degli altri ci si racconta molto, anche se è una metacomunicazione. In questi casi mi sento in colpa. Perché i nostri punti di partenza sono totalmente diversi: sorprendentemente ci capiamo ma è come se ci guardassimo da due piani diversi dello stesso edificio. Lui mi dice cose persino commoventi: per esempio che era terrorizzato quando ho dovuto sostenere l’esame da giornalista, che il mio successo lui l’ha vissuto anche e soprattutto come un suo successo, e che dunque ha sentito ripagati i suoi sforzi.
Lo stesso non è avvenuto con A., e di questo non si capacita. Dice cose assurde come: il “fatto di offrirvi il pranzo è un privilegio da parte mia”, senza rendersi nemmeno conto che quel privilegio è anche un cappio, visto che il boss è lui, visto che è solo in Italia, visto che non ha amici a parte le persone con cui lavora.
Ci deve essere dietro una diversa concezione della gerarchia: ovvero l’idea che i rapporti gerarchici sono consustanziali alla società e che dunque l’unica differenza che passa tra un capo buono e uno cattivo è se ti paga il pranzo o meno. Non c’è l’idea di una separazione netta e imprescindibile tra vita e lavoro. Non c’è l’idea che sia naturale non mischiare i due piani. Tanto che lui arriva a dire: “L’altro giorno è stata la prima volta in 3 anni che sono dovuto uscire per mangiare da solo e, davvero, ci sono stato molto male”.
E qui devo fare un ulteriore flashback.
Giorni fa. Stavamo uscendo dall’ufficio (e, sempre per quanto sopra detto, anche l’uscita è rigorosamente regolamentata: si esce insieme, mai da soli) per andare a casa. Prima di chiudere tutto, mentre sto raccogliendo le mie cose, mi si rivolge con tono grave: “From tomorrow I want to set a new rule in the office”. Mi parte la tachicardia e subito un retropensiero: “Oddio, che ho fatto stavolta? Di nuovo qualcosa di cui non mi sono resa conto?” (è stato in questo modo in passato che mi ha posto di fronte a problematiche per me allucinanti, di solito riguardanti una mia manchevolezza come giornalista).
Ma il problema non sono io stavolta, il problema è appunto e ancora A. Lui ha deciso di non andare più a pranzo insieme nei giorni in cui non c’è lei: questa è la nuova regola. Non posso dirgli che la cosa mi rende solo felice e liberata. Lui riparte con la solfa di A. che non ha corrisposto alle sue aspettative, che lo ha frainteso, che non ha fatto niente per crescere. "Ma che ti importa?", gli domanderebbe una persona sana di mente. Io questa domanda non posso farla, lo offenderei mortalmente. Lui ha proiettato tutte le sue energie su di noi, e si aspetta dei risultati come un padre, negando però di esserlo e chiamando le sue pressioni dei semplici suggerimenti. Come possono essere suggerimenti se è il mio capo a parlare? Mi sembra eufemistico chiamarle così. Io per lungo tempo l’ho vissute come intimidazioni.
In ultimo, mi fa tenerezza e arrivo persino a sentirmi in colpa. Il punto è che capisco le sue intenzioni ma non posso fare altro che non condividerle.
*Lavoro per un giornale giapponese, ma in Italia. Non parlo giapponese, ma passo le giornate a discutere con un giapponese: il mio capo. Ne ho cambiati diversi, eppure molte questioni sono rimaste le stesse. Ce n’è una, poi, a cui proprio non so dar risposta: che ci faccio qui? (senza scomodare Chatwin per carità)