Necessario strumento di autosupporto per digerire i fraintendimenti e le inquietudini quotidiane. Quando ogni sforzo di dialogo interculturale cede davanti alla bieca logica capo-dipendente.
12 maggio 2010, 19:30
I cipressi che a Bòlgheri alti e schietti…
Eccoci a Bolgheri, per l’intervista al Marchese Incisa della Rocchetta, ovvero per un articolo sul Sassicaia, chiaramente per la serie sui brand internazionali.
La giornata inizia presto, e per me inizia con una corsa furiosa – mi sveglio alle 7.45, con solo 15 minuti che mi separano dall’appuntamento per il check out. Quando scendo trafelata nella hall dell’albergo, lui e il fotografo sono già lì, hanno già fatto colazione, e sono scattanti e attivi. Proprio come me. Alla stazione addento la tazza e bevo il cornetto, ma loro mi aspettano e mi mettono ansia. Gli dico: andate, andate avanti, ma me li trovo sempre dietro qualche pilastro ad attendermi (anche se ci sono 20 minuti ancora prima che il treno arrivi).
Alla Tenuta San Guido (Sassicaia) ci riservano un’inappuntabile ospitalità, ma l’organizzazione è tutto tranne che nipponica e i miei giapponesi sono persi: hanno bisogno di uno schedule. Gli ho spiegato che possiamo decidere noi se fare prima un giro poi l’intervista, insomma che abbiamo carta bianca su come gestire la giornata, comunque mi domandano delucidazioni sul da farsi. Con loro è sempre un po’ come con quelli che non amano l’interrogazione sull’argomento a piacere. Troppa libertà li terrorizza.
Visitiamo le vigne e rapidamente le cantine, poi incontriamo il Marchese per l’intervista.
Tutto procede abbastanza serenamente. C’è solo un momento in cui vorrei sprofondare. Al Marchese vengono rivolte diverse richieste per la foto, il fotografo gli colloca il bicchiere all’altezza giusta, lo fa spostare, sposta me che impiccio, ecc. Poi lo fa alzare per una foto davanti alle botti. Ma entrambi i giapponesi non sono soddisfatti, c’è un particolare che ingombra e rovina: così il mio capo si accosta al Marchese e inizia ad aggiustargli la cravatta. Io soffro per lui.
Perché questo Marchese, devo dirlo, mi sta simpatico: possiede il tipico portamento dei nobili che si vestono a casaccio.
Poi il direttore generale di Sassicaia mi racconta un divertente aneddoto: in passato lavorava per un’altra azienda vinicola e gli è capitato di dover consegnare una quantità consistente di vini a una società collegata a Berlusconi. Mi spiega che, dopo averlo trattato a pesci in faccia con frasi del tono: "lei mi ha già fatto perdere troppo tempo", gli viene detto che: "Il Cavaliere paga solo in nero". Lui non accetta e quelli alla fine devono capitolare.
Credo sia superfluo commentare.
Tutto va avanti in modo sereno, ci ingozzano di cibo come oche da fois gras e di vino come botti di rovere.
Abbiamo una microdiscussione solo quando lui mi domanda come si chiama il mare su questo versante di Toscana e io mi limito a dire Tirreno. Lui con aria sapienziale mi contraddice, appena ci sediamo per un caffè accende il portatile, si usa come fact checking prendendo il suo articolo su Napoleone in cui parla del Mar ligure.
Chiedo all’autista che ci accompagna, il quale mi risponde: "Beh, il mare è il Tirreno, poi certo sulle carte nautiche c’è anche scritto Mar ligure, ma in pochi lo chiamano così".
E’ fastidioso e spiazzante che lui debba venire a dirmi pure i nomi dei mari italiani. Persino per me che ho sempre detestato la geografia (e dopo questo ancor di più).
12 maggio 2010, 19:35
C’è tempo e tempo
Io sono patologica sul ritardo, quindi non sono fonte propriamente credibile. In compenso, ed è notorio e dunque persino pleonastico ricordarlo, i giapponesi sono patologici sulla puntualità.
Due esempi della giornata (anche perché finché siamo io e lui c’è una certa flessibilità, ma se subentra un secondo giapponese le cose si complicano).
Della visita ho già detto. La sera da Sassicaia ci fanno sapere che lasceranno un tavolo prenotato per noi presso un ristorante di Bolgheri. Non c’è bisogno di un orario, il paese sarà 10 m X 10 m e non ci sono ancora molti turisti. Decidiamo di andare alle 20.30. Entrando in albergo, dico: "See you 8.30 here", ma loro restano sospesi e mi rispondono quasi coralmente: "8.20". Li guardo allibita, lui capisce e con uno di quegli impeti di apertura e buon senso che apprezzo, commenta così: "Siamo giapponesi", io rido, e lui aggiunge sempre scherzando: "capito? Non è né 8.19 né 8.21, ma è 8.20". Per carità. Così alle 8.20 mi presento all’ingresso, lui stupito guarda l’orologio e si accorge della mia precisione, me ne chiede spiegazione: "It’just because I heard your door closing", replico. Ed è vero. Loro, per fortuna, ridono (anche se lui insinua prontamente il dubbio che il prossimo corrispondente non sarà così comprensivo, mentre io penso: se ne faccia una ragione!).
Dopo cena, ci mettiamo d’accordo per l’indomani. Ci vengono a prendere alle 11.30: già pregusto ampie dormite e meritate solitudini, ma lui ordina: "Colazione alle 9". Di nuovo lo guardo allucinata, provo a convincerlo sulle 10, provo a metterla sull’ognuno faccia un po’ quel che gli pare, ma alla fine, sull’uscio della stanza, gli dico che sarò lì alle 9. Mi ha preso sul senso di colpa.
*Lavoro per un giornale giapponese, ma in Italia. Non parlo giapponese, ma passo le giornate a discutere con un giapponese: il mio capo. Ne ho cambiati diversi, eppure molte questioni sono rimaste le stesse. Ce n’è una, poi, a cui proprio non so dar risposta: che ci faccio qui? (senza scomodare Chatwin per carità)