La disavventura di Alessandro Amadori, che dopo un incidente a Phuket si è visto amputare un piede, apre uno squarcio nella malasanità thailandese. Un Paese in via di sviluppo dove la sanità pubblica fatiscente lascia spazio a costosissimi ospedali privati. L’inchiesta di China Files.
Il caso di Alessandro Amadori, il ventisettenne sardo che ha perso un piede mentre si trovava in vacanza in Thailandia, ha indignato, scioccato e commosso l’Italia.
L’ha indignata con la notizia che il Bangkok Hospital di Phuket, dove il giovane era stato trasportato d’urgenza lo scorso 30 dicembre dopo un incidente motociclistico avvenuto sulle strade dell’isola, avesse rifiutato di riattaccargli chirurgicamente l’arto fino al ricevimento di una certa somma di denaro, forse pregiudicando così le probabilità di successo dell’operazione.
L’ha poi scioccata con la notizia del preventivo dell’operazione, che da un iniziale 5mila euro sembra essere cresciuto col passare delle ore fino ad arrivare, secondo alcune fonti, addirittura a una cifra tra i 20 e i 30mila euro.
L’ha quindi commossa con la solidarietà di Olbia, la città d’origine di Alessandro, che ha organizzato una vera e propria colletta per aiutare i genitori del ragazzo, un operaio e una donna delle pulizie, a mettere insieme abbastanza soldi per volare in Thailandia e finanziare l’intervento.
Ma, malgrado la commozione, le domande restano, anche perché Alessandro infine, il suo piede sinistro, l’ha lasciato a Phuket. I tentativi di riattaccare l’arto infatti, iniziati soltanto a dodici ore dal ricovero grazie a un anticipo versato all’ospedale dal console italiano a Phuket, sono risultati in un rigetto e i medici si sono ritrovati costretti ad amputare.
Alle pronte accuse di avere compromesso irrimediabilmente l’operazione con quell’esitazione a intervenire motivata dalla politica di cash upfront, il Bangkok Hospital ha risposto che la situazione lasciava comunque poche speranze fin dall’inizio: un’affermazione che produce forse più domande di quelle a cui cerca di rispondere.
La Thailandia non è certo un campione nell’ambito della sanità. È soltanto nell’ultimo decennio, a seguito a delle riforme promosse del premier “populista” Thaksin Shinawatra, tutt’oggi in esilio dopo il golpe del 2006, che la sanità pubblica è diventata accessibile anche ai meno abbienti.
La professionalità degli ospedali statali è messa in dubbio dai thailandesi stessi, e chi può permetterselo è solito rivolgersi, per un intervento chirurgico come per un raffreddore, agli ospedali privati, dove in cambio di cifre molto più importanti si ottiene solitamente un servizio decisamente migliore.
Il Bangkok Hospital di Phuket, dell’omonima catena ospedaliera che conta tredici sedi sparse tra la capitale e i più importanti centri turistici del paese, è uno di questi.
E neanche uno qualsiasi: bastano quattro passi nella sua sede principale di Bangkok. Sale d’attesa con pianisti e violinisti che intrattengono i pazienti; camere private, piuttosto simili a stanze d’albergo con quadri, televisori al plasma, piantine e divanetti; cartelli bilingue, in thailandese e inglese, e addirittura “sottocliniche” indicate in arabo o in giappones. Si tratta di un vero e proprio ospedale d’élite, con servizi e strutture pensati su misura delle tasche dei ricchi locali, che non disdegna quindi neanche la moneta straniera.
Che Alessandro fosse stato trasportato al Bangkok Hospital di Phuket – probabilmente l’ospedale più vicino in grado di curarlo – potrebbe essere stata insieme la sua fortuna e la sua sfortuna. La sua fortuna perché, parlando in termini assoluti almeno, ci si può aspettare che abbia avuto accesso alla massima competenza medica sull’isola; la sua sfortuna perché il conto da pagare per ricevere un servizio da primo mondo in un paese in via di sviluppo non è irrisorio, e quindi perché potrebbe essere stata proprio l’importanza della cifra richiesta la causa del ritardo.
Anche se per uno straniero non è obbligatorio essere in possesso di una polizza assicurativa per essere assistiti in Thailandia, è anche vero che gli ospedali sono soliti a domandare, nel caso di cifre importanti, una somma di denaro – che normalmente corrisponde al costo preventivo del trattamento – come garanzia della capacità di coprire le spese mediche.
E riguardo alla questione più spinosa: se in Thailandia non esiste il concetto di intervenire in caso di emergenza, con o senza copertura finanziaria, la risposta, nel pericoloso gioco di traduzione da una cultura all’altra, potrebbe soltanto portare a un’altra domanda: che cos’è una “emergenza”?
Secondo il personale medico intervistatoda China Files, ma estraneo al Bangkok Hospital, un’emergenza tale da giustificare un intervento a prescindere dalle garanzie finanziarie del paziente sembra essere soltanto il pericolo di morte. Una categoria piuttosto rigida, in cui il pericolo di perdita di un arto non sembra rientrare e che, nell’ottica di un paese in via di sviluppo, non è forse necessariamente sbalorditiva.
È difficile trovare a tutti costi una morale per ogni favola; specie quando più che di favole si tratta di drammi. Ma allo stesso modo, sarebbe forse anche un peccato lasciare che una vicenda del genere passasse inutilmente come tante altre.
Se c’è qualcosa da imparare dalla disavventura di Alessandro è forse proprio l’importanza di coprirsi quantomeno con un’assicurazione medica quando si decide di viaggiare verso Paesi che, nonostante le immagini patinate delle brochure turistiche, vivono realtà completamente diverse – e non per forza più facili – di quelle di casa.
* Edoardo Siani vive in Thailandia dal 2002. Lavora come insegnante di inglese e di italiano e come interprete per la polizia locale. Sta raccontando gli anni trascorsi in uno slum di Bangkok in un libro.