È il terzo attacco all’esterno in una grande stazione ferroviaria della Cina, in poco più di due mesi. Intorno alle 11 del 6 marzo mattina, almeno quattro uomini armati di lunghi coltelli hanno ferito sei passanti. Questa volta la stazione è quella di Canton, megalopoli da 13 milioni di abitanti della Cina meridionale. Secondo alcuni testimoni oculari, gli assalitori vestivano con un copricapo e una maglietta bianca. Uno di loro sarebbe stato ferito e arrestato, i complici sarebbero scappati.
L’incidente avviene a meno di una settimana da quello che forse è il primo attentato suicida che la Cina ricordi. Il 30 aprile due uomini si sono fatti esplodere nella stazione di Urumqi, capitale della regione autonoma dello Xinjiang. Ci sono stati 3 morti e 79 feriti. Era l’ultimo giorno della visita in loco del presidente Xi Jinping e, di fatto, è stata la dimostrazione lampante che la crescita a due cifre che la regione ha registrato negli ultimi anni non è servita a mitigare le tensioni etniche.
Seppure ancora non sono chiari i moventi e non si conoscono eventuali rivendicazioni, le modalità dell’attacco hanno ricordato il cosiddetto “11 settembre cinese”. Lo scorso primo marzo, una decina di attentatori armati di lunghi coltelli ha ucciso a sangue freddo 29 persone e ne ha ferito 143. Il tutto è avvenuto nella stazione di Kunming, altra metropoli della Cina meridionale. Anche quell’attacco non fu rivendicato, ma la polizia e i media di stato affermarono quasi immediatamente che era stato “pianificato e organizzato dalle forze separatiste dello Xinjiang”. Nel giro di due giorni le forze dell’ordine cinesi avrebbero arrestato tutti gli attentatori e dato un nome e un cognome al capo dell’operazione: Abdurehim Kurban.
Poi non se ne è saputo più nulla, ma l’attentato è stato così ricondotto alla minoranza turcofona e di religione islamica degli uiguri, la popolazione indoeuropea che abita la regione nordoccidentale dello Xinjiang. Loro lamentano che le tradizioni locali vengono osteggiate e soppresse dalla popolazione han, l’etnia dominante in Cina, che di fatto occupa anche i punti chiavi dell’amministrazione della regione. Pechino a sua volta denuncia che gli uiguri starebbero mettendo su un movimento indipendentista che – dopo gli attacchi del 2001 alle Torri gemelle – è stato messo in correlazione con al Qaeda. Da allora i cinesi sono convinti che gruppi organizzati di milizie uigure siano indottrinati e addestrati nel vicino Afghanistan per partecipare alla jihad mondiale.
Intanto gli uiguri, che fino agli anni Ottanta costituivano oltre l’80 per cento della popolazione dello Xinjiang, sono scesi a meno del 45 per cento. La chiamano “sommersione etnica” ed è la politica messa in atto da Pechino per favorire l’”integrazione” di aree a forte velleità indipendentista. Lo Xinjiang – regione ricca di risorse naturali come gas, petrolio e carbone – è destinato a soddisfare la sete di energia dello sviluppo cinese. Ma nel frattempo è dilaniato da quella che potremmo definire una guerra civile a bassa intensità. Solo nel 2013 – e solo per gli incidenti noti – si sono superati i cento morti. Gli scontri sono spesso scaturiti da stupide provocazioni o da abusi di funzionari locali. Le informazioni sono rare e incomplete e, forse proprio per questo, la tensione sociale sale assieme all’indignazione popolare.
Lo scorso 29 ottobre una famiglia uigura si è fatta esplodere con una macchina a piazza Tian’anmen, proprio sotto il ritratto di Mao. L’incidente ha bucato gli schermi dell’informazione mondiale ma il movente rimane ignoto. Sembrerebbe che la famiglia avesse investito tutti i suoi risparmi nella costruzione di una moschea per il suo villaggio natale, poi distrutta dalle forze dell’ordine cinesi. Xi Jinping aveva chiesto ai funzionari locali di fare in modo che “i terroristi diventino come i ratti che scappano per le le strade mentre tutti urlano: ammazzateli!”. È chiaro che ormai la strategia è quella di portare il conflitto fuori dallo Xinjiang. E sembrerebbe che “i ratti” sono più imprevedibili di quanto si pensasse.
[Scritto per il Fatto Quotidiano; foto credits Afp]