La Cina sta pensando a come tassare le piattaforme e a come stabilire un criterio affinché i profitti derivanti dall’utilizzo dei dati siano condivisi con chi quei dati li fornisce alle aziende, ovvero i cittadini. Nel mazzo finirebbero però non solo le big, Alibaba, Tencent e le ultime start-up specie nel campo del delivery, ma anche quello sconfinato mondo del livestreaming che da tempo in Cina spopola.
I NUMERI RACCONTANO in modo evidente il peso economico di questo ambito: il commercio digitale, oggi, rappresenta oltre il terzo dell’economia cinese. Tassare alcune aziende significherebbe in primo luogo un recupero ingente di denaro. Nel 2019, secondo la China Academy of Information and Communications Technology, l’economia digitale della nazione avrebbe generato oltre 5mila miliardi di dollari, pari al 36% del Pil nazionale.
Al di là degli aspetti economici ovvi (si tratterebbe di recuperare una fetta di Pil e riportarla all’interno delle casse statali, anziché nelle tasche dei vari Jack Ma) non può apparire strano questo tentativo per diversi motivi: in primo luogo risponde a esigenze che si sono levate da tempo anche nel mondo occidentale, dove le scorribande – anche etiche – dei social networks hanno cominciato a costituire un problema giuridico oltre che fiscale per molti paesi.
In secondo luogo per quanto riguarda la Cina saremmo di fronte a quello che uno dei più grandi sinologi della storia, Joseph Needham, definì il «passato nel presente della Cina»: al di là infatti della piega ultra statalista presa dall’amministrazione Xi Jinping, nella storia cinese le tenaglie dello Stato (compreso l’apparato amministrativo di un «Grande Stato» di una qualunque dinastia) sono sempre arrivate a controllare anche i gangli economici più profondi della società, non fosse altro per la scarsa considerazione che nella storia imperiale hanno sempre avuto i mercanti, ultimi dopo i letterati, i contadini, gli artigiani e gli operai nella scala sociale.
SECONDO NEEDHAM, fu Chang Kai-shek che provò a invertire quest’ordine ponendo i mercanti al primo posto, con il risultato di uscire sconfitto dallo scontro con i comunisti che invece, più in linea con la tradizione, miravano a confermare questo schema, salvo poi procedere all’annullamento di ogni divisione «di classe». E che di recente lo Stato cinese abbia tentato in ogni modo di accaparrarsi business, potere e dati non è più un mistero, almeno da quando Jack Ma è sparito e la sua azienda è sotto il tiro incrociato di legislatori e magistratura cinese.
Ad aprire le danze di questa discussione in Cina è stato Yao Qian, capo dell’ufficio di supervisione scientifica e tecnologica presso la China Securities Regulatory Commission (Csrc), durante un forum a Pechino riportato da Reuters. Yao ha affermato che il valore delle imprese simili a piattaforme è stato creato dai loro utenti e che gli utenti dovrebbero condividere i profitti con quelle imprese.
SI TRATTA di un desiderata che non può che aprire a interessanti sviluppi futuri: siamo infatti noi i creatori dei dati che ci vengono «estratti», tanto in Italia quanto in Cina, dalle piattaforme. «I coupon e le sovvenzioni offerte da queste piattaforme nella loro fase iniziale di sviluppo vengono utilizzati più come approccio di marketing», ha affermato Yao. «In qualità di veri creatori del valore aziendale, gli utenti non hanno condiviso i vantaggi reali dei ricavi realizzati».
In qualità di rappresentanti del pubblico, dunque, «i governi dovrebbero studiare a fondo se è necessario imporre tasse digitali a imprese simili a piattaforme, proprio come impongono tasse sulle risorse naturali». E su questo secondo punto il dibattito si è scatenato. Come può lo Stato controllare e regolare, almeno fiscalmente, queste grandi piattaforme, come si trattasse ad esempio di una società mineraria?
Si tratta senza dubbio, in primo luogo, di un ritardo dell’apparato legislativo rispetto all’evoluzione del mondo digitale, un ritardo analogo si è registrato nel tempo un po’ dappertutto. Come ricorda Stefano Quintarelli su Agenda Digitale, in un articolo sui tentativi europei a proposito di web tax (e le sue difficoltà, non solo giuridiche), «quando i furti di elettricità hanno cominciato a verificarsi, i codici penali non erano adeguati. Il concetto di furto riguardava solo le cose mobili e l’elettricità non è una “cosa mobile”, come può essere rubata? Pertanto, sono stati introdotti nell’ordinamento giuridico articoli specifici in cui si afferma che anche l’elettricità, pur non essendo tale, è considerata una cosa mobile e quindi si applicano tutte le leggi in materia di furto».
IN CINA PERÒ TUTTO QUESTO porta all’orizzonte quella parola, «nazionalizzazione», che dalle nostre parti non riscuote lo stesso successo. Eppure, in Cina, di questo si parla. Le ultime novità sulle piattaforme del resto sono veri e propri bombardamenti.
Come ha riportato Caixin due giorni fa, «un gruppo di consumatori sostenuto dal governo ha accusato i giganti tech di utilizzare i loro algoritmi per intimidire i consumatori». In un incontro sull’argomento tenuto dalla China Consumers Association il 7 gennaio, il gruppo ha pubblicato un documento nel quale si chiedono «poteri rafforzati per i regolatori». Secondo questo gruppo i consumatori sarebbero «schiacciati dagli algoritmi» e dall’atteggiamento delle piattaforme equiparato al «bullismo». Infine, i dati.
Nella loro potenziale tassazione, il primo problema è la proprietà. Come riportato anche dal dibattito in Cina, attualmente non c’è consenso sul fatto che i dati siano di proprietà degli utenti, della piattaforma o di entrambi. La municipalità di Shenzhen nel luglio 2020 ha emesso una bozza di regolamento nella quale per la prima volta viene utilizzato il concetto di «diritto sui dati». Il progetto di regolamento stabilisce la proprietà dei dati personali e pubblici.
I DATI PUBBLICI – si legge – «sono un nuovo tipo di bene di proprietà statale e i suoi diritti appartengono allo stato». Secondo la proposta, il governo municipale di Shenzhen eserciterà di conseguenza i diritti sui dati pubblici per conto dello Stato. I dati personali si riferiscono ai dati registrati attraverso l’automazione e altri mezzi che possono identificare l’identità di una persona fisica ed è strettamente correlato alla vita privata della persona.
In quel caso la bozza di legge è già pronta ed è sul modello europeo, dunque molto intransigente con le aziende. E chissà che non venga superata da questa discussione, verso una condivisione dei profitti. Vedremo allora se tutto questo è funzionale alla propaganda, o davvero la Cina aprirà a una nuova gestione delle piattaforme, seppure con caratteristiche cinesi.
[Pubblicato su il manifesto]Fondatore di China Files, dopo una decade passata in Cina ora lavora a Il Manifesto. Ha pubblicato “Il nuovo sogno cinese” (manifestolibri, 2013), “Cina globale” (manifestolibri 2017) e Red Mirror: Il nostro futuro si scrive in Cina (Laterza, 2020). Con Giada Messetti è co-autore di Risciò, un podcast sulla Cina contemporanea. Vive a Roma.