combustibili isole pacifico

Sustanalytics – Combustibili di distruzione di massa

In Sustanalytics by Sabrina Moles

La proliferazione dei combustibili fossili sarà regolamentata come per i trattati internazionali sulle armi nucleari? Per alcune isole del Pacifico, che stanno emergendo tra i paesi più attivi sul piano della denuncia multilaterale contro i grandi inquinatori, sì. La nuova puntata con la rubrica dedicata ad ambiente, energia e cambiamenti climatici in Asia

“Stiamo annegando”. Era il 9 novembre 2021 quando il ministro degli esteri di Tuvalu Simon Kofe parlò alle nazioni riunite per la COP26 di Glasgow e da allora l’appello delle isole del Pacifico ha continuato a rimbombare tra le sale della diplomazia climatica globale. Il mese di marzo 2023, 536 giorni dopo, un altro funzionario annuncerà una “vittoria climatica di proporzioni epiche”. Le Nazioni unite hanno infatti approvato una risoluzione avanzata dallo stato insulare di Vanuatu per portare la crisi climatica alla Corte internazionale di giustizia. 

Un passo avanti non indifferente, dato che prima di questa iniziativa ci avevano provato le Isole Marshall e Palau. Ora l’Onu porterà alla corte dell’Aia uno dei quesiti chiave delle problematiche ambientali che riguardano i paesi più poveri al mondo: “Si può portare a giudizio una nazione per non aver agito per contenere i cambiamenti climatici?”. Sempre a marzo, inoltre, sei stati del Pacifico si sono uniti per spingere l’approvazione di un trattato di non-proliferazione…dei combustibili fossili.

Paradiso perduto

Che gli arcipelaghi del Pacifico sembrino condannati a un destino sott’acqua è cosa risaputa. Lo è meno il fatto che proprio in questi atolli le dinamiche ambientali esacerbate dalla crisi climatica si sommino a gravi deficit economici. A farne le spese, di conseguenza, sono le centinaia di migliaia di persone che abitano in questi paesi. Le richieste per una gestione giusta della crisi climatica arrivano anche per portare l’attenzione su una parte dell’Asia Pacifico dove il Prodotto interno lordo è arrivato a registrare dei record negativi a doppia cifra con il caso limite di Palau ( -13%). Finanziare i danni dei cambiamenti climatici, che qui colpiscono in modo sempre più evidente, diventa un’impresa impossibile.

L’iniziativa proposta dal governo di Vanuatu dimostra che, come si legge nella documentazione ufficiale, “se uno dei paesi più vulnerabili al mondo può essere ambizioso nell’adempiere ai propri obblighi ai sensi del diritto internazionale, lo stesso può fare il più ricco e sviluppato del mondo”. Tra i problemi ambientali che si stanno presentando con maggiore frequenza non rientra solo l’innalzamento delle acque, ma anche la siccità e la violenza delle tempeste tropicali. Solo a inizio marzo due cicloni hanno danneggiato oltre 90 mila abitazioni e colpito circa l’80% della popolazione. Un susseguirsi di eventi estremi mai visto prima, come afferma Eric Durpaire, del Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef).

A nord, nel frattempo, uno studio condotto pubblicato su Environmental Research Letters racconta come le Isole Salomone abbiano perso cinque isole a causa del livello dei mari tra il 1947 e il 2015. Quelli che un tempo erano popolosi villaggi costieri oggi si stanno frammentando in tante comunità disperse tra le colline che vanno a ri-occupare gli insediamenti preesistenti. In tutto il Pacifico orientale si moltiplicano i villaggi fantasma, mentre nascono altri insediamenti con nomi programmatici: per esempio Kenani, nelle Fiji, che significa “terra promessa”. Per contenere il fenomeno i piani di sviluppo e adattamento puntano soprattutto sulla capacità di allertare le popolazioni prima che avvengano i disastri, e trovare alternative architettoniche capaci di tamponare gli effetti dei cambiamenti climatici. Un elenco molto ricco di propositi, e difficile da realizzare mentre il tempo per intervenire si accorcia. Non solo in termini economici, ma anche di conoscenze e tecnologie a disposizione per investire su metodi adatti alla realtà sul campo. 

Il Pacifico insorge

È proprio per chiedere qualcosa di più delle sole compensazioni economiche che un gruppo di stati insulari del Pacifico chiede che venga presto considerato un trattato di non-proliferazione dei combustibili fossili. “Abbiamo bisogno sia di un’azione nazionale che di cooperazione internazionale per fermare esplicitamente l’espansione delle emissioni e della produzione di combustibili fossili al fine di raggiungere gli obiettivi dell’accordo di Parigi”, spiega il primo ministro di Vanuatu, Alatoi Ishmael  Kalsakau. “La transizione da un’economia estrattiva ci offre l’opportunità di costruirne una che sia invece visionaria, rigenerativa e fruttuosa”.

Andare alle cause della crisi climatica per quella parte più povera e colpita del Pacifico richiede un passo ambizioso da parte delle principali economie mondiali. E da un sistema di creazione di profitto che ruota intorno a un mondo motorizzato, alimentato a petrolio e carbone. Un sistema fondato sulle tempistiche dei trasporti a motore e su geografie senza limiti, che però non hanno fatto in tempo a raggiungere quei paesi remoti dove prima dello sviluppo da manuale è arrivato il colpo di coda della globalizzazione. L’incontro di Port Vila ha riunito, insieme a Vanuatu, i rappresentanti di Tuvalu, Tonga, Fiji, Niue e le Isole Salomone. Con un unico obiettivo: eliminare i combustibili fossili dai propri paesi, nonostante le emissioni infinitesimali rispetto a quelle di Cina e Stati Uniti. 

Il Fossil Fuels Non-proliferation Treaty è una proposta che chiede una risposta più decisa sul piano dei grandi accordi internazionali per il clima, dove non appare esplicitamente la richiesta di eliminare gas e petrolio dalle economie di tutti i paesi. La proposta fa riferimento a una prima richiesta avanzata nel 2015, la dichiarazione di Suva, dove si chiede esplicitamente uno stop alle fonti fossili, in particolare gli investimenti nella costruzione di nuove miniere di carbone. L’industria delle fossili, nonostante gli appelli sulla sufficiente disponibilità di fonti energetiche alternative, rimane un gigante. Solo in Asia si trova la maggiore concentrazione di miniere in costruzione, con Cina, India e Australia in testa. La stessa Canberra che, sul piano formale, continua a sostenere le proposte del gruppo dei paesi del Pacifico.