Sri Lanka, le ragioni dietro la crisi e la rivolta

In Asia Meridionale by Redazione

La crisi che ha portato lo Sri Lanka ad avere serie difficoltà nell’importare specialmente generi alimentari, petrolio e derivati e medicinali si innesta, come detto, su una situazione pressoché disastrosa aggravata dalla pandemia

La rivolta scoppiata nello Sri Lanka ha ormai assunto contorni e dimensioni rilevanti: è scoppiata nei giorni precedenti e giovedì 31 marzo ha preso corpo nella capitale con imponenti manifestazioni di strada contro il governo. Colombo ha dovuto dichiarare l’emergenza nazionale e imporre il coprifuoco. In particolare la contestazione è rivolta alla controversa figura del presidente Gotabaya Rajapaksa che, eletto nel 2019, ha da una parte ereditato una condizione economica del paese decisamente non brillante e dall’altra ha accentuato, con alcune scelte di politica economica errate e a causa della crisi post-pandemica, il trend negativo.

Inflazione e politica economica disastrosa.

Nel dicembre 2021 l’inflazione nell’isola aveva raggiunto il tasso eccezionale del 12,1% e i prezzi dei beni alimentari erano più che raddoppiati rispetto all’anno precedente. La pandemia ha giocato un ruolo rilevante nel determinare la crisi che ha però avuto anche fattori endogeni ma non era ancora comparabile agli sviluppi dell’anno in corso. Infatti, come riconosciuto dal sito web della Banca centrale dello Sri Lanka, a gennaio l’indice generale dell’aumento dei prezzi è balzato al 14,17% e in febbraio al 15,10%.

E’ divenuto quasi impossibile per larga parte della popolazione permettersi le risorse alimentari e le code per accaparrarsi i generi alimentari e carburante sono ormai la normalità, molti servizi fondamentali sono stati sospesi (ad esempio sono state cancellate diverse sessioni di esame di scuole inferiori e la fornitura di energia elettrica è ormai caratterizzata da razionamenti programmati).

Una consistente parte della popolazione nel 2021 (circa l’11,7%), era da considerarsi sotto la soglia della povertà. D’altronde il metro per calcolare il tasso di povertà, che le fonti governative ufficiali hanno tenuto ai livelli del 2016 (disponibilità di 4,166 Rupie al mese, che ad oggi varrebbero 0,0127 Euro), è stato spazzato via dall’inflazione folle degli ultimi mesi. Tutto ciò ha trascinato il paese nell’emergenza economica.

La crisi che ha portato il paese ad avere serie difficoltà nell’importare specialmente generi alimentari, petrolio e derivati e medicinali si innesta, come detto, su una situazione pressoché disastrosa aggravata dalla pandemia. Il governo di Gotabaya Rajapaksa aveva poi tentato di rispettare alcune azzardate promesse elettorali del 2019, come il taglio delle imposte sul valore aggiunto nel commercio, dando un duro colpo alle entrate dell’erario. La Banca centrale del paese al contempo ha visto assottigliarsi le riserve di valuta straniera, che entravano in circolo nel paese soprattutto grazie al turismo (compromesso dalla pandemia) e a determinati investimenti esteri, sino ad una paradossale impotenza di fronte alla compromissione in negativo della bilancia commerciale e all’aumento dell’inflazione.

Un governo messo in discussione.

Le contestazioni sulla presunta corruzione del governo hanno trovato terreno fertile nell’eccezionalità della situazione e nel fatto che l’anziano leader, eletto nel 2019, non abbia saputo emendare la sua immagine di alleato della Cina anche al di là dell’interesse del paese. Nonostante le molte facce nuove della competizione elettorale del 2019 il popolo cingalese optò per la scelta nazionalista e per un candidato di più avanzata età anagrafica, protagonista di una narrativa buddhista nazionalista grazie alla quale conquistò i cuori e le menti di un elettorato spaventato anche dalla possibile recrudescenza di violenze interreligiose o interetniche. Tuttavia il governo ha dimostrato, con il suo staff, di non essere capace ad intraprendere una seria strada di riforme e soprattutto di non riuscire facilmente ad affrancarsi dalla pesante ombra di Pechino. La Cina è il primo partner commerciale e mantiene una quantità elevatissima di investimenti in Sri Lanka (soprattutto nelle infrastrutture), legando a doppio filo a sé il paese che d’altronde già prima del governo attuale era dipendente dagli investimenti cinesi. L’accusa maggiore, oltre a quella di corruzione, per il governo è di aver svenduto il paese alla Cina, in cambio di un’ulteriore dipendenza dalla potenza orientale.

L’interesse di Pechino a rimanere fortemente presente nel paese è controbilanciato da quello di Nuova Delhi che nel momento turbolento attuale vede una finestra di opportunità. Il Ministro degli esteri indiano, Subrahmanyam Jaishankar, ha visitato l’isola al termine del mese di marzo guarda caso proponendo accordi e intese nei campi della digitalizzazione, dello sviluppo sviluppo dei porti srilankesi e del soccorso marittimo. Colombo e Delhi collaboreranno anche in progetti di diversificazione dell’energia in tre isole nei pressi di Jaffna (mirando ad offrire una via d’uscita per la crisi energetica).

Così, mentre il paese scivola nella crisi economica e nei contraccolpi sociali sul palcoscenico della politica estera si consuma la competizione diplomatica di India e Cina.

Di Francesco Valacchi