Una linea sottile e circolare tracciata col gesso all’angolo di due strade. Poiché gli incroci sono punti di incontro, si dice, gli spiriti dei morti non dovranno faticare molto per trovare la strada che li conduca ai focolari antichi, eretti in loro ricordo per invocare salute, prosperità e abbondanza. Tutto intorno un concerto di rumori e luci celebrato dai fuochi artificiali, manca poco più di un’ora alla mezzanotte ed è la vigilia del nuovo anno del bue.
Siamo a Xianyang, a pochi chilometri di distanza da Xi’an, la storica capitale della Cina, destinazione finale dell’antica via della seta e un tempo città più grande del mondo. Xi’an è oggi conosciuta da molti come la città nei cui pressi è stato ritrovato il famoso ‘esercito di terracotta’, commissionato dall’imperatore Shi Huangdi a difesa del proprio complesso funerario. L’epoca è quella della dinastia Qin nel terzo secolo avanti Cristo, quando la Cina fu unificata. Ma in pochi sanno del primato rivendicato dagli abitanti di Xianyang: fu questa città, infatti, ad essere capitale della Cina durante l’epoca Qin, e non Xi’an, che lo divenne solo pochi decenni dopo, con l’avvento della dinastia Han. Un’enorme statua dell’imperatore Shi Huangdi è stata costruita recentemente in un ampio piazzale al centro della città per commemorare l’antichità della storia della città.
La gente non sembra prestare molta attenzione a questa competizione, ma è orgogliosa di rappresentare il cuore storico e geografico della Cina e guarda con diffidenza al Chunjie celebrato nelle grandi città e in particolare a Beijing, antagonista moderna della vecchia capitale. In questa metropoli la festa è, a dire degli abitanti di Xianyang, ormai commercializzata e non più sentita. E alla vigilia del capodanno avverto la fondatezza di questa idea. Anche se spesso l’esecuzione dei riti a cui assisto nasconde un automatismo di fondo nella sua reiterazione annuale, tutte le porte sono ornate dai duilian, i distici augurali appesi nei giorni precedenti. Lo stesso vale per le tradizionali visite ai sepolcri, dove le persone si recano il giorno della vigilia per rendere omaggio ai propri antenati e invocare la loro protezione bruciando davanti alle tombe banconote finte.
Chi non compie queste visite esegue il rito per strada, nelle sere che precedono la vigilia e soprattutto alla vigilia stessa. Già all’imbrunire è possibile vedere decine di focolari accesi accanto ad altri cumuli di cenere già sbiadita: le persone si incontrano nelle piazze, a turno e in diversi punti si inchinano, disegnano un cerchio con un gesso e al suo interno tracciano col dito di una mano il nome di un antenato morto nella città; quindi riempiono la superficie del cerchio con grandi pezzi di carta ritagliati (simboleggianti moneta di piccolo taglio) e sopra vi pongono delle banconote finte per poi accendervi un fuoco, prostrarsi e invocare il nome, la protezione e la benevolenza dell’antenato deceduto. Tra le persone che celebrano il rito ci sono giovani, anziani, famiglie riunite, uomini ben vestiti e altri con abiti vecchi e umili; è come se la tradizione li riunisse tutti in una delle mille sfaccettature del più antico culto della Cina, quello per gli antenati.
In passato ho visto gli stessi focolari anche a Beijing, ma è vero che sono minimi in rapporto a Xianyang e soprattutto alla gente che popola l’attuale capitale. Basta poi fare un giro nei luoghi storici di Beijing, i famosi hutong per rendersi conto di un’altro contrasto: a Xianyang ogni casa ha i suoi duilian appesi per il nuovo anno, e se ci si spinge nelle campagne circostanti è normale vedervi affiancate anche delle figure di eroici personaggi storici a guardia degli ingressi delle abitazioni. Nella capitale, invece, sono molte le porte prive dei distici augurali o che hanno indosso solo quelli vecchi degli anni passati.
Ma il contrasto non è così netto come appare: Xianyang è una città in movimento e la consapevolezza del proprio tradizionalismo si confonde nella contraddittorietà di ciò che la città diviene giorno dopo giorno, fino a risultare una convinzione che risulta quasi stonata nell’ambiente circostante. Xianyang è città insieme vecchia e moderna, che perde la propria identità nelle pochissime abitazioni tradizionali rimaste e destinate a scomparire; risulta quasi spaventosa nella sua impersonalità di piccola città periferica che imita le grandi metropoli e i loro centri commerciali, i negozi di abbigliamento alla moda e gli alti palazzi che sempre più persone abitano.
Tuttavia il particolare che più colpisce è che nella gente del posto non c’è resistenza al cambiamento, se non nella coscienza di persone di una certa estrazione culturale. Poi ci sono i ricordi delle vecchie generazioni, che rievocano con piacere le asprezze del passato, quando la mancanza faceva apprezzare ciò che si aveva nei giorni di festa, come il pasto di capodanno, unica occasione per mangiare cibo migliore, condividere gli ideali e gli sforzi comuni legati alla propria sopravvivenza e a quella dei propri cari e della comunità. Ma nell’irriverenza di queste persone verso l’abbondanza c’è solo un colpo di coda di chi non ha saputo rifiutare la modernità: quasi tutte le persone che ho incontrato a Xianyang, dalle riforme di Deng Xiaoping ad oggi, ha provato a “fare affari”, comprare a un prezzo e rivendere a un altro; chi non è riuscito in un settore ha provati in altri, chi ha avuto successo ha accumulato abbastanza ricchezze da poter comprare un appartamento grande in uno di quegli alti palazzi che ha abbattuto la tradizione. E lo ha fatto senza rimpianti, perché probabilmente quello che è rimasto della mentalità tradizionale a Xianyang più di ogni altra cosa è l’attenzione per l’apparenza e la reputazione, un concetto che si evince essenzialmente da tre fattori: avere famiglia, un buon lavoro e una casa. Nelle campagne circostanti in genere la gente costruisce la propria casa ed è impressionante il contrasto che si crea tra la facciata, curatissima, dipinta e adornata, e gli interni, generalmente molto freddi e sporchi a causa della generale povertà.
Le nuove genrazioni non sono diverse, colpite dalla mancanza di opportunità lavorative tipiche delle città periferiche, si gettano nel commercio con prestiti dalla famiglia o con la messa in comune di piccoli capitali fra amici; a volte riescono a tirare avanti, oppure accumulano piccoli capitali o allo stesso modo perdono grandi somme per via delle truffe. Quando si parla coi giovani di tradizione emerge una rassegnata accettazione di fronte al subire quasi ineluttabile le pressioni matrimoniali o lavorative. Oppure una nostalgia per il proprio passato, per le case e i quartieri dove sono cresciuti, spingendo la tradizione a identificarsi con ciò che è vecchio, trasandato e abbandonato perché legato alla povertà e quindi in antitesi alla contemporanea retorica sullo sviluppo: le case diroccate e in parte rase al suolo, prive di riscaldamento e a volte di acqua calda; il disordine, le vie polverose coperte di rifiuti e affollate dalla povertà dei contadini che tengono i banchi per i mercatini di strada. Quelle stesse vie dove si possono ancora vedere le pannocchie di granturco accatastate insieme e pendenti dai tetti delle case come è costume locale, o quei banchi dove si possono comprare lunghe canne da zucchero che la gente del posto ama sbucciare coi denti e poi mangiare.
Quando si parla di tradizione con i giovani emerge anche l’amore per i riti delle festività, su tutte il chunjie, per il quale affrontano lunghi viaggi a condizioni e in condizioni spesso insostenibili. Il chunyun o ‘trasporto di Capodanno’ è uno spostamento di massa che riporta alle proprie famiglie di appartenenza quasi un miliardo di cinesi; quasi sempre i biglietti di ritorno in treno si esauriscono in tempi brevissimi, e dopo file interminabili e infruttuose si è costretti a ricorrere a individui che grazie a delle conoscenze hanno acquistato e rivendono a prezzo maggiorato un numero indefinito di biglietti. Spesso per affrontare i viaggi più lunghi i posti nelle cuccette sono i primi ad esaurirsi e bisogna accontentarsi di posti su sedili o di posti ‘in piedi’. Il viaggio da Beijing a Xianyang dura circa tredici ore e le carrozze che ospitano i sedili si riempiono di persone fino a rendere più che complesso il passaggio della gente e persino l’accesso ai servizi sanitari.
La realtà dei fatti stona col messaggio trasmesso dai media e oggi accettato anch’esso come tradizione. A Xianyang, la sera della vigilia, la famiglia ristretta si riunisce per passare insieme la notte di Capodanno (la famiglia allargata in genere si raduna al pranzo del primo giorno dell’anno), ma da circa venticinque anni è divenuto ‘tradizione’ guardare assieme il lungo spettacolo televisivo di capodanno, condito da una serie di sketch comici e ricoperto di una patina di appariscente e maestoso glamour, che a più riprese trasmette messaggi nazionalistici e patriottici, in rispetto a quegli ideali che ormai da almeno due decenni sono divenuti manifesto della propaganda di regime sostituendo la retorica ideologica di epoca maoista.
La realtà è, come spesso accade e in particolare in Cina, piena di contraddizioni che sembrano armonizzarsi e convivere nelle vite dei singoli laobaixing, la ‘gente comune’. In ultima analisi sono loro i destinatari delle pianificazioni economiche e dei messaggi provenienti dalla dirigenza. E sono loro, allo stesso tempo, i soggetti attivi che rappresentano e rielaborano nella propria esistenza quella che è l’essenza, almeno in senso numerico, della realtà cinese. Una realtà fatta di sacrifici, sconfitte e vittorie, di tradizione svilita, spesso automatizzata ma pur sempre ribadita. Una realtà in cui il senso della festa tradizionale cinese per eccellenza è riunito la stessa sera, a poche ore di distanza, nell’ancestrale culto per gli antenati praticato nelle strade e nel grido commosso e ideologizzato trasmesso dalle televisioni: “Wo ai Zhongguo! Wo ai Zhongguo! Wo ai Zhongguo!” (“Io amo la Cina! Io amo la Cina! Io amo la Cina!”)