Per abbassare il costo del lavoro, le piccole e medie imprese in Corea del Sud da tempo assumono forza lavoro migrante. Ma il governo è deciso a tagliare la presenza di stranieri nel Paese, a fronte di un’ondata xenofoba nazionalista arrivata fino ai banchi del parlamento di Seul.
I centri per l’impiego sudcoreani sono stati presi d’assalto dai piccoli e medi industriali. Gli imprenditori vogliono essere sicuri di poter assumere un numero sufficiente di stranieri da impiegare nelle proprie aziende.
Secondo i dati del ministero del Lavoro di Seul, quest’anno oltre 67mila stranieri saranno costretti a lasciare il Paese alla scadenza del loro permesso di lavoro, la cui durata massima è stata accorciata da sei a quattro anni e dieci mesi. Sommati ai quasi 34mila lavoratori il cui permesso è scaduto l’anno scorso si arriva a un totale di 100mila stranieri in meno.
Le quote di entrata stabilite dal governo per il 2012 prevedono invece l’impiego di 57mila stranieri, 10mila in meno di quelli che stanno partendo. Le prime ad accusare il colpo potrebbero essere proprio le piccole e medie imprese, non soltanto perché per preparare i nuovi arrivati servirà tempo.
Il rischio è la carenza di personale. I giovani sudcoreani sono sempre meno propensi a fare certi tipi di lavori e puntano a posti in grandi società con maggiori opportunità di carriera. “È un circolo vizioso che unisce rimpatri, pochi nuovi arrivi e un calo nelle vendite”, ha spiegato un imprenditore tessile al quotidiano Chosun Ilbo.
La crisi europea aveva influito sull’economia sudcoreana, fortemente orientata alle esportazioni. Il Paese sembra però riprendersi. Nel primo trimestre del 2012 l’export è cresciuto del 3,4 per cento, contro il calo del 2,3 per cento di quello precedente. A questo dato si aggiunge un aumento dello 0,9 per cento del Pil sempre nello stesso periodo.
In questo contesto le Pmi chiedono ai politici di aumentare i flussi. Le quote per il settore prevedono l’ingresso di 49mila lavoratori migranti, la metà di quanti ne servirebbero, ha spiegato Ryu Jae-bum, responsabile per i lavoratori stranieri della Federazione delle Pmi, al Korea Herald.
“Senza forza lavoro saremo costretti a spostare la produzione all’estero o chiudere”, ha aggiunto, “Dobbiamo tutelare uno dei pilastri della nostra economia”.
L’esecutivo ha preso tuttavia alcune misure , per esempio permettendo la riassunzione di alcuni lavoratori dopo un periodo di tre mesi trascorsi in patria. Inoltre, dopo sei mesi, potrebbero avere il permesso di tornare in Corea dopo aver superato uno speciale test di lingua.
Nell’anno elettorale – il parlamento è stato rinnovato ad aprile e le presidenziali saranno a dicembre – i politici e il governo vanno con i piedi di piombo sull’argomento, tanto più con un tasso di disoccupazione giovanile all’8,3 per cento, più del doppio del dato nazionale al 3,7 per cento in calo a marzo rispetto al mese precedente.
C’è il timore che l’ingresso di manodopera e a basso costo possa avere un effetto al ribasso sui salari. All’interno della società coreana esistono inoltre spinte xenofobe. In questi giorni sono tornate alla ribalta con gli insulti alla parlamentare di origine filippina Jasmine Lee, eletta nelle file del New Frontier Party al governo e promotrice dei diritti sia dei lavoratori migranti sia delle coppie miste.
Sotto attacco è inoltre finita la comunità dei coreani di origine cinese dopo un caso di omicidio. Già nel 2009 Amnesty International denunciò le discriminazioni e le violenze sia fisiche sia verbali di cui sono vittime i lavoratori migranti, sebbene la Corea del Sud sia uno dei primi Paesi asiatici ad aver garantito i loro diritti.
Allora a finire sotto la lente delle organizzazioni per la tutela dei diritti umani fu il piano presentato nel 2008 per dimezzare il numero degli irregolari entro il 2012, con il conseguente aumento delle retate nei luoghi di lavoro e nelle abitazioni private.
Nel Paese sono attivi gruppi, la cui voce si sente soprattutto online, che si oppongono alle campagne anti-discriminazione. Secondo un sondaggio del Korea Times il 65 per cento dei coreani è però convinto della necessità di garantire ai migranti maggiori diritti e parità salariale.
Esistono inoltre difficoltà nel relazionarsi alle culture e alle tradizioni dei migranti. Sempre il Korea Times porta ad esempio la storia di un lavoratore indonesiano assegnato a una ditta che lavora carne suina, sebbene sia musulmano. O ancora la vicenda di un altro indonesiano assegnato a una ditta che produce cibo per cani, o quella di un nepalese impiegato come pescatore pur non avesse mai visto il mare.
I contratti sono scritti sia in coreano sia in inglese, spiega un funzionario dello Human Resources Development Services, ma i dettagli sono spesso soltanto in coreano e sebbene ai lavoratori sia richiesta la conoscenza della lingua spesso il livello non è sufficiente per capire tutto.
Impiegati soprattutto nel manifatturiero, nell’agricoltura, nell’allevamento e nelle costruzioni, i lavoratori migranti non hanno inoltre molta scelta, nota il quotidiano. Una situazione che si aggrava con i limiti posti ai cambi di impiego, tre al massimo. In più “gli uffici del lavoro sembrano prendere le parti dei datori di lavoro”, ha spiegato al Korea Times l’attivista Kwon Oh-hyun, segretario del Joint Committee with Migrants in Korea.
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