Gli impianti industriali in alcune delle province cinesi più inquinate emettono una quantità di sostanze tossiche fino a 10 volte superiori rispetto al consentito. Lo ha rivelato uno studio ufficiale del governo di Pechino, che ha anche sottolineato il notevole sforzo di trasparenza compiuto da alcuni governi locali, come in Hebei, Shandong, Zhejiang e a Pechino. Tra gli impianti sotto accusa, soprattutto centrali elettriche a carbone, fabbriche siderurgiche, cementifici e industrie petrolchimiche.
È questo il primo risultato, seppur modesto, di una nuova norma che impone a circa 15.000 delle più grandi fabbriche del paese di riferire pubblicamente e con continuità, su internet, i dati sulle proprie emissioni nell’atmosfera e sugli scarichi delle acque reflue (con frequenza di ogni ora per le prime e di ogni due per i secondi, tutti i giorni dell’anno). Insomma, la qualità dell’ambiente peggiora, ma almeno adesso ce lo diciamo. Bella soddisfazione.
In questi giorni, a Pechino, la densità delle particelle PM2.5 staziona a circa 350-500 microgrammi per metro cubo e la notte scorsa ha raggiunto il livello più alto di 671, secondo la centralina installata presso l’ambasciata degli Stati Uniti. È un livello circa di 26 volte superiore ai 25 microgrammi considerati sicuri dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. A Milano, si comincia a innervosirsi quando la densità delle PM2.5 supera i 50 microgrammi; a Pechino, si gioisce e si va al parco nelle giornate di “cielo azzurro”, in cui si viaggia sugli 80.
In questi ultimi giorni, è tutta la Cina del nord-est a soffocare. Ma a cavallo tra novembre e dicembre dello scorso anno è a Shanghai che si sono raggiunti livelli di 6-700 microgrammi per metro cubo. La coltre è ovunque e, nonostante gli sforzi, pare che la situazione stia peggiorando. Qualcuno se la prende anche con il cambiamento climatico: prima ogni tanto arrivava quel bel gelido vento siberiano e spazzava via tutto in direzione del mare –
dicono – adesso manco più quello.
L’inquinamento atmosferico è la maggiore minaccia per la salute dei cinesi (e degli stranieri che vivono in Cina), secondo uno studio pubblicato lo scorso anno su Lancet, rivista medica britannica. La ricerca afferma che circa 1,2 milioni di persone sono morte prematuramente in Cina nel 2010 a causa della pessima aria che si respira. Gli stessi dati del governo cinese mostrano che il cancro del polmone è oggi la principale causa di morte per tumori maligni e molte delle vittime sono non fumatori.
Lo scorso anno è stato varato un piano anti-inquinamento quinquennale e nazionale con alle spalle un enorme investimento da 275 miliardi di dollari, che mira a una riduzione del 25 per cento delle PM 2.5 nella regione intorno a Pechino. Da parte sua, Nielsen ritiene che la risposta definitiva al problema dell’inquinamento cinese può essere una carbon tax sull’industria, una soluzione basata sul mercato e favorita anche dal nuovo ministro delle Finanze cinese, Lou Jiwei.
I più ottimisti pensano che in cinque anni la situazione può effettivamente migliorare, soprattutto dopo che il governo ha dimostrato insolita determinatezza ad uso di telecamere, spedendo una squadra di demolitori a tirare giù un’acciaieria inquinante a Tangshan, nell’Hebei, a circa due ore di macchina da Pechino. L’acciaieria, sostenuta dai funzionari locali, rifiutava di chiudere i battenti nonostante l’ordine venuto dall’alto. L’hanno fatta esplodere.
Tuttavia, prima che la situazione climatica possa migliorare effettivamente, ci vorranno diversi decenni: il tempo, cioè, necessario per cambiare totalmente il modello energivoro di sviluppo che in Cina si è imposto.
Di fronte a questo dramma, appare piuttosto paradossale che alcuni settori industriali, in Europa, si oppongano all’ulteriore riduzione delle emissioni di CO2 (dal 20 al 40 per cento rispetto al 1990) – una misura all’esame della Commissione Europea – adducendo il fatto che “altri Paesi” – il che di solito significa la Cina – fanno “dumping” sull’inquinamento, favorendo le proprie industrie.
Certo, c’è una logica: il Dragone si è ritagliato una forte posizione competitiva nelle manifatture anche ha attirato dalle sue parti le produzioni più inquinanti senza fare una piega. Ma in Cina la situazione “Londra 1952” (i “giorni dello smog” dal 5 al 9 dicembre di quell’anno che, secondo stime successive fecero 12mila morti) è il quotidiano. E questi sono anche costi per tutti, con buona parte dei siderurgici e dei chimici di casa nostra.
In realtà, come si è visto, è in direzione diametralmente opposta a questo vero o presunto “dumping” che il governo cinese sta disperatamente cercando di fare qualcosa. Anche perché il nuovo ceto medio su cui Pechino si gioca tutto, vuole sempre più qualità della vita (e sempre meno cancri ai polmoni, possibilmente).
L’ostacolo, come spesso succede, sono i grandi potentati politico-economici che si annidano nei grandi conglomerati di Stato e i funzionari locali, che sulla crescita economica determinata dall’acciaieria o dalla fabbrica chimica si sono costruiti le possibilità di carriera.
[Scritto per Lettera43; Foto credits: www.theatlantic.com]