SINOLOGIE – I media e il Nobel a Liu Xiaobo

In by Simone

La tesi Il Premio Nobel Liu Xiaobo nel racconto dei media: la stampa cinese, americana e italiana a confronto analizza come la stampa cinese e occidentale ha trattato la vicenda sottolineando come stereotipi, generalizzazioni e pregiudizi abbiano trasformato il racconto oggettivo dei fatti in uno schieramento bipolare tra media cinesi e occidentali.
L’8 ottobre 2010 il Comitato incaricato di Oslo assegna il Premio Nobel per la Pace a colui che la stampa internazionale identificherà come il simbolo mondiale della lotta per i diritti umani in Cina, il dissidente cinese Liu Xiaobo.

L’esplosione mediatica che ne ha seguito gli sviluppi in toni tanto accesi da scatenare un vero e proprio schieramento bipolare tra media d’Oriente e d’Occidente, ha ispirato l’analisi delle forti ingerenze di fenomeni interculturali, come lo stereotipo e il pregiudizio nella dissertazione mass-mediale, in particolare nelle vicende legate alla carta stampata.

Fin dall’annuncio ufficiale dell’assegnazione del Premio Nobel per la Pace a Liu Xiaobo, le testate giornalistiche di tutto il mondo sono divampate in un tripudio di politici ed opinionisti che hanno dettato le regole interpretative dell’intera vicenda: quella che era partita come una discrepanza tra l’amministrazione politica della Repubblica Popolare Cinese e il comitato norvegese del Premio Nobel si è trasformata in un vero e proprio dibattito politico, economico e culturale sullo sviluppo, degli ultimi vent’anni, del cosiddetto “gigante asiatico”. Il risultato? Da una parte, lo schieramento compatto dell’Occidente democratico, dall’altra quello ancor più intransigente dell’Oriente comunista.

Ciò che caratterizza questa trattazione è il tentativo di ricostruire l’origine di quei tasselli che hanno contribuito alla formazione di un rompicapo tanto articolato da investire profondamente l’intera comunità internazionale, basandosi sia sulla stretta rete economica e politica che contraddistingue l’era moderna sia su quei valori culturali impliciti che, molto spesso, mimetizzandosi in prodotti della natura, sono strumentalizzati al fine di renderli indiscutibili.

Nel primo capitolo, si sono tratteggiati quei fenomeni della comunicazione interculturale che frequentemente trovano un’applicazione concreta nel racconto dei media.  Se, nella società odierna, i termini “stereotipo” e “pregiudizio” si colorano di una valenza altamente negativa, poiché associati a fenomeni sociali quali razzismo e discriminazione, le scienze umane, al contrario, li considerano fenomeni “naturali” (e, quindi, non patologici) della mente umana. Il legame che intercorre tra di essi e il processo cognitivo della categorizzazione, infatti, li presenta come valide risorse per la semplificazione di un range di esperienze variegate e confusionarie.

Dove nasce, quindi, il “lato oscuro” di tali fenomeni? Sono la refrattarietà al cambiamento e la rigidità intrinseca a renderli “pericolosi”: meccanismi come l’ “effetto distorcente delle aspettative stereotipiche”, ossia la negazione delle esperienze dirette in favore di costrutti stereotipici pre-esistenti, e la netta distinzione che è istintivamente applicata tra membri dell’ingroup e dell’outgroup, tendono ad attivare fenomeni che standardizzano sempre di più una determinata categoria, indipendentemente dalla specificità individuale di chi la compone. Ad esempio, la categoria femminile non è in grado di guidare o, ancora, il gruppo dei cinesi d’oltremare è una società “chiusa”, semplicemente interessata al profitto.

Un ulteriore chiave di lettura della trattazione giornalistica occidentale si ritrova nelle teorie del filosofo Edward Said (Gerusalemme, 1935 – New York, 2003). L’opera Orientalism, pubblicata nel 1978, racchiude il file rouge delle teorie sviluppate da Said: il cosiddetto “orientalismo” è, infatti, definito come la diffusione di un sapere geopolitico entro la letteratura di una cultura, che ne presuppone una selezione percettiva, una categorizzazione etnocentrica impermeabile e un atteggiamento pregiudiziale. In altre parole, la realtà è sostituita da una rappresentazione precostituita. Allo stesso tempo, il sussurro di una possibile trattazione “occidentalista”, nata ad Est, si acutizza nelle voci “straniere” dei giornalisti cinesi ai quali si è cercato di riservare quello spazio molto spesso negato da barriere linguistiche e culturali.

Nel capitolo successivo, si sono delineati i tratti salienti dei protagonisti della vicenda. Da una parte, infatti, l’Europa di Oslo e l’America di Barack Obama, predecessore di Liu Xiaobo nel ricevere il Premio Nobel per la Pace, fecero fronte comune non solo nel difendere strenuamente la decisione norvegese, ma anche nel tentare di applicare quante più pressioni possibili sul governo di Wen Jiabao nella speranza di un’immediata scarcerazione di Liu Xiaobo. Dall’altra, la Repubblica Popolare Cinese si trovò dal nulla costretta a dover affrontare le accuse di tutti i suoi maggiori partner commerciali occidentali e a dover fornire giustificazioni in merito alle vicissitudini che avevano portato alla reclusione del neo Premio Nobel.

Otto mesi prima, infatti, Liu Xiaobo era stato condannato in appello a undici anni di carcere con l’accusa d’incitamento alla sovversione del potere di stato, a causa della sua vitale partecipazione alla stesura e diffusione della cosiddetta Charta 08. La comunità internazionale assisteva, quindi, a uno scontro bipolare che vedeva contrapporsi da una parte l’Occidente, fermo nelle proprie concezioni umanitarie e democratiche, dall’altra la Repubblica Popolare Cinese, attaccata nei suoi precetti fondatori.

Non che non ci si fosse già imbattuti in diversi campanelli d’allarme: fin dalle prime settimane del 2010, infatti, quando a Oslo era stato fatto il nome di Liu Xiaobo da diverse personalità di rilievo internazionale, la Repubblica di Hu Jintao aveva esaurientemente esposto il proprio dissenso in tale direzione. Dopotutto, la Repubblica Popolare Cinese si trovava a dover gestire l’assegnazione non di un qualsiasi Premio Nobel, ma addirittura di quello per la Pace, a un uomo che, dal punto di vista dei più, aveva istigato una serie di scontri in nome di una riforma volta all’estinzione della Cina così come è oggi conosciuta.

Il caso di Liu Xiaobo, così com’è stato trattato dai maggiori network internazionali, ha sensibilizzato l’opinione pubblica accrescendo, involontariamente, quegli stereotipi e quei pregiudizi che comunemente si creano nel confronto con il “diverso”. A loro volta, essi hanno esteso quel senso di appartenenza a un gruppo sociale, per lo più involontario in ogni individuo, portando a generalizzare e condannare ogni azione o dichiarazione che provenisse dall’esterno.

Da una parte, infatti, l’Occidente di America ed Europa, vicino per cultura e ideali, ha fatto fronte comune nel perseguire le proprie idee di libertà e democrazia, condivise anche dallo stesso Liu Xiaobo e dai suoi sostenitori. Dall’altra, la Repubblica Popolare Cinese si è trovata ad affrontare la celebrazione di un uomo che, non solo da anni era stato etichettato come una figura problematica per la sopravvivenza del Partito, ma che era stato addirittura condannato per aver violato una legge che, seppur controversa agli occhi del mondo occidentale, pur sempre legge era.

Le misure drastiche che sono successivamente state applicate nella gestione della questione hanno dato l’avvio ad una sorta di “accanimento” della stampa internazionale nel giudicare le procedure effettuate come assolutamente lesive della dignità e dei diritti umani: dall’offuscamento, in un primo momento, dell’attribuzione del premio Nobel all’opinione pubblica, agli arresti domiciliari della moglie di Liu Xiaobo, Liu Xia. Seppur in paesi democratici come l’Unione Europea, o gli Stati Uniti d’America, tali limitazioni sarebbero senz’altro incorse in condanne pubbliche e giudiziarie, in un paese come la Repubblica Popolare Cinese, la situazione è sostanzialmente differente, poiché poggia su una cultura che, per quanto in costante evoluzione, è sostenuta da altre basi, in alcuni casi addirittura in netta contrapposizione con i valori occidentali.

Nell’ultimo capitolo si sono presi in esame gli articoli pubblicati riguardo l’assegnazione del Premio Nobel per la Pace a Liu Xiaobo da tre testate giornalistiche internazionali: si è optato per La Repubblica come simbolo della stampa europea, The New York Times per quanto riguarda quella statunitense e “中国日报” (Zhōngguó Rìbào), la versione in lingua cinese dell’internazionale China Daily, come portavoce della stampa cinese.

Per ognuno dei tre quotidiani si è scelto di riportare e analizzare quegli estratti che ben rappresentano le cause e gli effetti provocati dall’elaborazione di eventi d’importanza mondiale attraverso la lente di stereotipi e pregiudizi. In particolare, la netta separazione tra ingroup e outgroup, tutti i fenomeni di differenziazione culturale ad essa connessi e la narrazione “orientalista”, nel caso di La Repubblica e The New York Times, e “occidentalista”, nel caso di Zhōngguó Rìbào, si sono dimostrati temi preponderanti.

Si è ritenuto necessario, inoltre, mettere a confronto le tre testate giornalistiche anche per quanto concerne l’andamento temporale della diffusione di articoli sul caso mediatico preso in analisi. La serie di dati emersi ha sottolineato quanto l’arbitrarietà cronologica abbia influito sulla stesura di un dossier completo e organico tanto quanto l’apporto di quegli stereotipi e pregiudizi che traspaiono dai reportage dei giornalisti internazionali.

Ciò che si desidera sottolineare sono i punti di vista di una stampa internazionale che, seppur raccontando della vita di uno stesso individuo, si colorano di così tante sfumature da dare quasi l’impressione di appartenere a mondi diversi. I caratteri della stampa cinese, per esempio, che così raramente raggiungono in modo trasparente l’orecchio occidentale, hanno dato vita a personaggi di una storia che tratteggia un Occidente completamente differente da quello in cui viviamo.

La terminologia utilizzata nella narrazione del caso giornalistico non solo rispecchia i fenomeni di “orientalismo” e “occidentalismo”, ma ne costruisce dei veri e propri paralleli. Da una parte, la trattazione della redazione di La Repubblica e The New York Times si popola di termini che trascendono l’argomento stesso di analisi. Un esempio si concretizza nei verbi “disertare”, “to harass” e “to abduct”, densi di un retrogusto giuridico, quasi punitivo.

Allo stesso modo, i giornalisti di Zhōngguó Rìbào tratteggiano il coinvolgimento occidentale con tinte tanto forti da dare adito ad un naturale discredito: “ Il Dalai Lama e Liu Xiaobo, tuttavia, sono due burattini politici dell’influenza occidentale".

Una lotta di carta e inchiostro tra Oriente e Occidente, comunismo e democrazia, che si fonda su variabili economiche e culturali. Stereotipi e pregiudizi, infatti, investono differentemente la percezione di gruppi sociali geograficamente distanti fra loro, pur mantenendo la medesima base che, se cristallizzata all’estremo, porta a dare vita a uno stigma, ossia un tratto somatico o culturale, innato o acquisito da un individuo che è oggetto di valutazioni negative tali da lederne l’identità.

In conclusione, si auspica che lo studio di un “occidentalismo” nella stampa orientale, seppur minimamente trattato oggigiorno, possa trovare nuove soluzioni per raggiungere l’abbattimento di quegli stereotipi e pregiudizi che caratterizzano entrambi gli appartenenti al gruppo “orientale” e “occidentale” e possa dare nuova luce al difficile percorso della comunicazione interculturale.

*Giulia Sciorati giulia.sciorati[@]gmail.com si è laureata in Scienze Linguistiche per le Relazioni Internazionali presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano nel luglio 2012. Ha frequentato corsi specialistici di Lingua Cinese presso l’Università di Lingua e Cultura di Pechino. Attualmente, frequenta il corso di Studi dell’Africa e dell’Asia presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università degli Studi di Pavia.

**Questa tesi è stata discussa presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Correlatrice: prof.ssa Anna Sfardini

[La foto di copertina è di Federica Festagallo]