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Resistenza femminile: «Da una parte i militari, dall’altra le donne»

In Economia, Politica e Società, Sud Est Asiatico by Agnese Ranaldi

La resistenza della popolazione birmana al colpo di stato militare che il 1° febbraio 2021 ha rovesciato il governo di Aung San Suu Kyi continua. Tra le fila di chi si oppone al regime dei generali ci sono migliaia di donne che sono «andate in foresta» e hanno sfidato il paradigma della «forza virile» in Myanmar. Ne abbiamo parlato con Alessandra Chiricosta, esperta di movimenti delle donne nel Sudest asiatico.

Che pensa del ruolo della resistenza femminile in Myanmar?
Il Sudest asiatico è un’area etnicamente e culturalmente varia, in cui convivono diversi equilibri di genere. Fino all’epoca coloniale la posizione delle donne nella società era, sotto taluni aspetti, più avanzata rispetto al cosiddetto Occidente. Le lotte anticoloniali hanno coinvolto le donne. Oggi il loro estraniamento dall’azione combattente va di pari passo con una progressiva militarizzazione, che è per sua specie androcentrica e favorisce una cultura della virilità. È particolare quello che sta avvenendo in Myanmar: la società militarizzata ha assunto da subito una polarizzazione di genere. Da una parte i militari, dall’altra le donne.

A che punto siamo ora, a due anni dal golpe militare?
In alcune narrazioni il tema della libertà femminile è legato a stretto giro con un discorso neocoloniale, come se le istanze di liberazione fossero importate da fuori. Ma l’esperienza coloniale ha aggravato le divisioni di genere. I militari in Myanmar sono spesso associati anche alla fazione più conservatrice del clero buddista, noto per la sua tradizione theravada, che sancisce l’inferiorizzazione delle donne. Le birmane, però, si sono riappropriate dell’etichetta dell’impurità. Ad esempio, poiché ad alcuni indumenti femminili è attribuito il potere di deprivare gli uomini della loro “forza virile”, alcune attiviste hanno appeso i loro htamein, le gonne tradizionali femminili, come barriera da opporre tra le persone che manifestavano e la polizia.

Le donne sono intervenute con gli strumenti a loro disposizione, tra cui il loro corpo. È così?
Il discorso del combattimento deve sempre partire da una diversa concezione della propria “presa di corpo”. Le donne del Myanmar hanno compiuto un passo importante: la riappropriazione della propria corporeità come arma e come possibilità combattente. Ora il livello dello scontro è altissimo. Come molte situazioni di crisi, chiunque si sente chiamato a partecipare all’azione, anche le donne.

Quello delle combattenti nella resistenza è un fenomeno nuovo?
Non proprio, nei vari anni di dittatura c’è stata una crescita esponenziale dei movimenti delle donne: attiviste e blogger hanno fatto un’ampia opera di tessitura sociale. C’è stato un lavoro di autocoscienza, che poi si è declinato anche nella partecipazione alla guerriglia. Da tempo varie etnie hanno organizzato gruppi paramilitari nelle montagne, per contrastare il nazionalismo della maggioranza bamar sostenuto dai generali. Anche donne e studenti dei gruppi minoritari (kachin, karen…), oltre che bamar, hanno iniziato ad “andare in foresta”, come si dice, trasformando radicalmente il senso del conflitto.

Cosa implica questo cambiamento?
La presenza di donne che hanno tematizzato la questione dell’oppressione femminile modifica lo scenario del conflitto e ne evidenzia le dinamiche patriarchiste. Ad esempio, una campionessa di arti marziali è andata ad allenare alcuni uomini birmani nelle montagne, e ha evidenziato questa contraddizione: si percepisce apertura, ma permangono forme di dominio maschile. Leggevo anche di una miliziana che diceva «siamo riuscite a far cambiare il modo in cui si danno comandi tra di noi, a dare ordini con gentilezza». Come sappiamo non è sufficiente dirsi rivoluzionari e basta (per essere al fianco delle donne, ndr). Occorre mettere a tema le relazioni ineguali di potere, anche all’interno della “resistenza”.

Quindi le combattenti birmane si sono prese una responsabilità in più…
Sono cambiati gli obiettivi della resistenza, e qui si vede anche la grande maturità del movimento. Non si chiede solo di mandare via i generali. La questione di genere viene tematizzata, è come se ci fosse una guerra nella guerra. Non bisogna rimandare la questione a un momento successivo: l’esperienza di altre guerrigliere – come accaduto in Vietnam – insegna che la libertà ottenuta sul campo di battaglia spesso viene addomesticata nel ritorno ad uno stato di pace. La crescente presenza femminile, con le sue pratiche relazionali inedite, sta cambiando le cose. Lo scenario è molto variegato, ma il corpo combattente sta aumentando.

Di Agnese Ranaldi

[Pubblicato su il manifesto]