Processo di pace in Myanmar: si discute, forse, di federalismo

In Economia, Politica e Società, Sud Est Asiatico by Redazione

Vista da Sittwe, la città birmana dell’apartheid per i musulmani, il summit del processo di pace che si è aperto ieri a Naypyidaw appariva ancora più lontano che altrove. Un desiderata che, nella regione occidentale del Rakhine, per ora non ha speranze.

Davanti all’albergo che ci ospita, con la consueta gentilezza birmana, si apre la strada che porta al quartiere di Aung Mingalar, fino al 2012 abitato forse da 80mila musulmani per lo più rohingya. Ma adesso in quel quartiere non ci si può più mettere piede né si può uscire da questo ghetto a cielo aperto nel pieno centro della capitale del Rakhine, che un tempo si chiamava Akyab e da cui proveniva uno dei protagonisti indiani del Palazzo degli specchi di Amitav Gosh: «il porto principale dell’Arakan, quel tratto di costa bassa e paludosa – scrive lo scrittore indiano – dove la Birmania si incontra con l’India in un vortice di inquietudine».

UN’INQUIETUDINE che, dopo un omicidio con stupro di cui si accusano i musulmani, darà vita nel 2012 a un vero proprio pogrom anti islamico che li caccerà tutti fuori da Sittwe, salvo i 4mila che – circondati da un assordante silenzio, da mucchi di spazzatura e torrette di polizia – vivono come reclusi in una prigione a cielo aperto. Con un differenza: in prigione sai quando uscirai. A Sittwe invece solo la morte può portarti fuori dal tuo carcere.

A Naypyidaw intanto – a 12 ore di macchina da Sittwe (un percorso interdetto dalla guerra) – è iniziata ieri la quarta sessione della «Conferenza di pace di Panglong del 21°secolo», come è stato chiamato il summit che si tiene nella capitale a ridosso delle legislative di novembre: due importanti banchi di prova per il governo civile della Lega democratica di Aung San Suu Kyi. Avrebbe dovuto tenersi dal 12 al 14 agosto ma all’ultimo momento ha subito un rinvio e non certo per questioni di Covid, in un Paese che ha tra le più basse percentuali di contagio al mondo.

IL LAVORIO PREPARATORIO è stato intenso e le sorprese non sono escluse compresa la speranza – anch’essa flebilissima – di una riforma della Costituzione fatta approvare dai militari nel 2008. Alla riunione sono invitate tutte le entità che da decenni combattono contro il governo centrale, ritenuto ostaggio dei bamar, la comunità dominante in un Paese dove le nazionalità riconosciute sono 135. Sono invitati tutti i dieci gruppi che hanno aderito e firmato l’accordo del Nationwide Ceasefire Agreement (Nca) – siglato nel 2015 prima della Conferenza di pace rilanciata nel 2016, sotto la bandiera della Lega, dal primo governo democraticamente eletto. Hanno però ricevuto l’invito anche gruppi che non hanno aderito o che hanno accettato solo in linea di principio il Nationwide Ceasefire Agreement del 2015. Un passo avanti.

TRA GLI INVITATI DI RILIEVO, fuori dall’accordo, ci sono per esempio la Kachin Independence Organisation e la United Wa State Party. Entrambi hanno un braccio armato potente e controllano vaste aree di territorio. I Wa hanno addirittura due enclave sul confine cinese dove comandano le loro piccole città-stato dove si vende e si compra di tutto: droghe, pangolini, donne, pasticche di metanfetamina.

Ma ci sono anche degli esclusi: il più noto è l’Arakan Army (Aa), iscritto nella lista dei gruppi terroristici da quest’anno e considerato solo un nemico da combattere ma con cui potrebbe aprirsi anche un futuro canale negoziale. Con gli altri gruppi – Shan, Kachin – non sono mancati screzi e sparatorie ma con l’Aa è diverso.

È guerra guerreggiata con vittime, sfollati, incendi, villaggi distrutti. Forse, dopo le Conferenza, si vedrà. Le roccaforti dell’Aa – un gruppo secessionista arakanese trasversale ma formato in prevalenza da buddisti – sono proprio nel Rakhine e nel Chin, dove si combatte ogni giorno anche con armi pesanti, uso di artiglieria, raid aerei. Non una guerra «dimenticata»: una guerra ignorata e poco coperta da giornali e tv anche perché l’accesso a questi territori e vietato. Al massimo ci puoi andare su iniziativa dall’esercito.

I TEMI SUL TAVOLO di Naypyidaw riguardano sia l’attuazione dell’accordo di cessate il fuoco a livello nazionale, sia ulteriori negoziati sui principi base per poter formare un’unione federale, il processo forse più difficile e che richiederà più tempo. Sarà però la prima volta in cui la parola «federalismo» farà il suo ingresso ufficiale nelle discussioni, come già avvenuto nelle riunioni preparatorie tra negoziatori. Probabile che, come già avvenuto alla fine della Conferenza del 2016, il negoziato si chiuda col rilancio di una nuova Roadmap for National Reconciliation and Union Peace. I punti previsti dalle maratone precedenti sono spesso però rimasti solo sulla carta.

DELL’ARKAN e della sua guerra che deborda nel Chin difficilmente si parlerà. E’ del resto un conflitto silenzioso di cui è vietato discutere. Una gara del silenzio a cui partecipano tutti, compresa la comunità internazionale, le Nazioni Unite, le Ong che lavorano nel Rakhine sempre a rischio espulsione. Si, certo, la condanna è unanime, ci mancherebbe. Ma i dettagli sono poco noti e nessuno ne discute volentieri. Parlano abbastanza chiaro i dati anche se vaghi e per difetto: a fine 2019 gli sfollati birmani erano oltre 240mila, la metà dei quali alloggiati in campi o simil-campi nel Rakhine, regione del Myanmar tagliata fuori da Internet per «motivi di sicurezza».

Ma la stima dell’Unhcr per le persone prese in carico dall’organizzazione era, a fine 2019, di oltre 700mila. Dal 2019 infatti, quando l’Aa ha iniziato a fare sul serio, il numero dei profughi è in costante aumento: nei primi mesi del 2020 si sono formati una settantina di nuovi campi con decine di migliaia di nuovi sfollati.

Fantasmi a cui le organizzazioni umanitarie non hanno accesso. Possono portare cibo e medicine ma non verificare che le cose si svolgano esattamente come dovrebbero. I funzionari stranieri non possono entrare nei campi e il personale locale deve passare una trafila burocratica infinita che spesso si inceppa sul terreno, magari al primo check point.

SE SE LA PASSANO MALE gli sfollati dal Chin o nel Rakhine, se la passano forse peggio i musulmani di Sittwe. I 4mila in città e i circa 120mila accalcati nei campi allestiti a qualche chilometro fuori dalla capitale. Anche lì con divieto di uscire. Per questa gente, che dista dai muri della sua vecchia abitazione meno di dieci chilometri, la vita è uno stillicidio quotidiano di fame, depressione, assenza di futuro. La popolazione di Sittwe era in gran parte rohingya, una comunità di origine bengalese che vive da secoli in Myanmar ma non è riconosciuta da Yangon. Della comunità rohingya originaria – dice l’Unhcr – ne rimangono in Myanmar 600mila indocumentati, 140mila dei quali internati nei campi.

Ben oltre la metà della popolazione rohingya birmana è fuggita in Bangladesh tra il 2016 e il 2017 con la prospettiva di non far mai più ritorno a casa. Una casa spesso incendiata o sequestrata. Quei 140mila nei campi o quei 4mila che a casa sono rimasti – senza nemmeno la speranza di potersene andare – sono condannati a una non vita accampata in periferia o nel quartiere prigione dove le condizioni di vita sono solo una supposizione. L’apartheid di Sittwe è la condanna a morte di un popolo che ha una sola colpa: non essere riuscito a scappare dal suo Paese.

Di Emanuele Giordana

[Pubblicato su il manifesto]