Processo Bo Xilai – Tigre contro tigre

In by Gabriele Battaglia

L’"epurazione" di Bo Xilai sarebbe però solo l’inizio di una guerra che si annuncia senza esclusione di colpi.  Lo dimostra il legame, rivelato da alcune carte del processo, con Zhou Yongkang uno degli uomini più potenti del Partito comunista cinese. Che è ormai una montagna che non può "ospitare due tigri". Durante il processo Bo Xilai, il "principe maoista" si è difeso come un leone. Si è opposto anche alla condanna all’ergastolo e, forse, ricorrerà in appello. L’opinione pubblica cinese intanto ha impiegato le sue energie a commentare l’inedita trasparenza del procedimento. La corte infatti, caso più unico che raro, ha rilasciato online le dichiarazioni dell’imputato e ha permesso il confronto con Wang Lijun il testimone più importante dell’accusa.

La maggior parte dei cinesi ha seguito il processo sui media di stato e si è trovata di fronte a titoli incredibili come quello della versione online del Quotidiano del popolo: "I Pm: l’imputato si dichiara non colpevole quindi dovrà essere punito severamente". L’accusa ha parlato principalmente dei crimini finanziari e Bo Xilai si è difeso denunciando la relazione amorosa che sarebbe intercorsa tra i suoi principali accusatori: sua moglie Gu Kailai (condanna a morte sospesa per l’omicidio Heywood) e l’allora suo braccio destro e capo della polizia Wang Lijun (condannato a 15 anni per diserzione, corruzione, abuso di potere e per aver «usato la legge a fini personali»).

Nessun accenno ad altri funzionari di Partito né chiarimenti sulle dinamiche che hanno portato alla caduta del personaggio più carismatico che si sia affacciato sulla scena politica cinese dai tempi di Mao.

Eppure forse qualcosa c’era. In uno dei due documenti scritti da "qualcuno presente in aula" e ottenuti in esclusiva dal New York Times, Bo afferma che avrebbe eseguito gli ordini di un’importante agenzia di Stato quando ha tentato di insabbiare la fuga al consolato americano del suo braccio destro Wang Lijun. L’agenzia in questione sarebbe la Central Politics and Law Commission, allora diretta da Zhou Yongkang numero 9 della scorsa legislatura e importante sostenitore di Bo Xilai.

Zhou, secondo quanto riportato dal quotidiano di Hong Kong, South China Morning Post, sarebbe già sotto indagine per corruzione. La notizia – che non è stata né confermata né smentita dalle agenzie cinesi – sarebbe una bomba. Un personaggio ancora più in alto di Bo nella piramide politica cinese, il capo della Commissione militare dell’ex Comitato permanente del Politburo, un protetto del grande vecchio Jiang Zemin sarebbe sotto inchiesta. È dalla fine della Rivoluzione culturale che nessun membro (o ex membro) del Comitato permanente viene indagato per crimini economici.

Shengli Gang

Ma queste potrebbero essere tutte illazioni. Se non fosse che mentre aspettiamo la sentenza sul processo Bo e la conferma delle indagini su Zhou, il cerchio si stringe. Un suo protetto, Jiang Jiemin, capo dell’organismo che sovrintende le grandi imprese di Stato ed ex presidente della China National Petroleum Corporation (PetroChina), finisce nelle maglie della campagna anticorruzione lanciata da Xi Jinping.

Durante la scorsa settimana altri alti funzionari della stessa azienda di Stato vengono messi sotto inchiesta. In comune hanno il fatto di aver cominciato la loro carriera negli impianti petroliferi di Shengli. Qui Zhou Yongkang aveva lavorato per oltre trent’anni prima che nel 2007 gli venisse assegnata una delle nove poltrone del Politburo, il gotha del Pcc. Negli anni seguenti tutti i sodali recentemente finiti sotto inchiesta per corruzione avevano fatto rapida carriera. Sotto inchiesta anche Li Chuncheng, sindaco di Chengdu negli anni in cui Zhou Yongkang era segretario di Partito della regione e Guo Yongxiang la cui carriera aveva seguito quella di Zhou, ma sempre un gradino più in basso.

Le tigri

Sembra evidente che il presidente Xi Jinping abbia intenzione di usare la tanto sbandierata (e necessaria) lotta alla corruzione per liberarsi dei suoi rivali politici. L’aveva già fatto anche Bo Xilai, quando era segretario di Partito della megalopoli di Chongqing. Attraverso la tanto lodata campagna contro la mafia (oltre 9mila indagati), si era sbarazzato o teneva sotto ricatto chi non lo appoggiava. D’altronde i due acerrimi nemici hanno diversi tratti in comune.

Oltre all’indiscusso carisma, Xi e Bo appartengono alla stessa generazione: sono entrambi ambiziosi figli di importantissimi dirigenti dei tempi di Mao e hanno uno stomaco di ferro per aver affrontato la Rivoluzione culturale durante l’adolescenza. Solo hanno visioni economico politiche contrapposte, e il populista maoista ha perso la sua chance. Così sono molti gli analisti che pensano che Xi Jinping, consolidando la sua posizione e eliminando gli avversari, si stia aprendo la strada per diventare il nuovo Deng Xiaoping, l’artefice delle politiche di riforma e di apertura di cui la Cina ha beneficiato fino ad oggi.

Le riforme

Ma la situazione economica cinese non è più così felice, e sono in molti ad essere convinti – come Xi – che le riforme necessarie alla Cina del 2013 siano quelle che coinvolgono le grandi aziende di Stato. Ma ci sono due punti da tenere in considerazione. Il primo è che in ogni caso non sarà affatto facile riformare le aziende di Stato. Toccarle significa infatti toccare gli interessi economici delle famiglie più potenti della Cina (che troppo spesso hanno strette parentele con i vertici dello Stato).

E il secondo è che Xi Jinping, indagando gli alti funzionari di Partito, ha di fatto rotto il tacito accordo a non indagare i propri membri preso dalla classe dirigente dopo il periodo di purghe che ha contraddistinto la Rivoluzione culturale. Questo significa che la lotta politica d’ora in poi sarà più intensa perché, se è vero che "una montagna non può ospitare due tigri", non è detto che la tigre vincente sia sempre la stessa.

[Scritto per Linkiesta; foto credits: Reuters/theatlantic.com]