Prima e seconda generazione, artisti e coppie: i cinesi in Italia oltre gli stereotipi

In Sinoitaliani by Redazione

“I genitori (cinesi) non assecondano molto la tua natura ma un po’ si impongono perché pensano […] di darti qualcosa in più, più possibilità” dice con schiettezza Liliana Liao, una delle intervistate del documentario Cinesi in Italia. Per i cinesi di seconda generazione o cosiddetti IBC (Italian Born Chinese) o italiani sino-discendenti il rapporto con i genitori può risultare un tema difficile e delicato. Ma Liliana riesce a parlarne con onestà e senza rancori. Appassionata di arte, voleva farne una professione ma fu osteggiata dalla madre, terrorizzata che la figlia potesse finire squattrinata a fare la ritrattista a Piazza Navona. Ora Liliana insegna lingua cinese ed è editor in mandarino per la la FAO ma prosegue imperterrita a sviluppare progetti artistici.

Non è una sorpresa che la cosiddetta prima generazione sia giunta in Italia con l’obiettivo preciso di raggiungere l’indipendenza economica. E, davanti a questa, tutte le altre questioni passano in secondo piano: l’educazione dei figli, il riposo dal lavoro, a volte perfino la propria salute. Verso i figli c’è anche una grande aspettativa di successo e di ricchezza. Se loro, senza una rete di contatti e senza conoscere la lingua, erano riusciti a costruirsi una vita, quali alti traguardi non avrebbero potuto raggiungere i loro figli che erano nati o cresciuti in Italia e avevano avuto un’istruzione italiana? E così li si spinge a diventare imprenditori o manager.

Liliana Liao è una delle undici donne, otto uomini e quattro coppie intervistate dai due giovani registi sino-italiani, Susanna Yu Bai (che è a sua volta un’intervistata) e Zheng Ning Yuan per il documentario Cinesi in Italia. Prodotto dall’Istituto Confucio dell’Università degli Studi di Torino in occasione della Notte d’Europa delle ricercatrici e dei ricercatori, il film nasce da un’idea della direttrice Stefania Stafutti con la collaborazione della chat “Dialogo”, un gruppo di sinologi e sino-italiani. Il documentario ha l’obiettivo ambizioso di raccontare le varie anime della comunità cinese in Italia. Gli intervistati sono infatti dislocati su tutta la penisola, da Trieste a Napoli passando per le principali città come Roma, Firenze e Milano o quelle con un alto numero di popolazione cinese come Prato. E il documentario restituisce una fotografia della sfaccettata e ricca della comunità cinese. O delle comunità cinesi.

C’è chi arriva dallo Zhejiang come Liliana che formano il grosso della comunità cinese. Si tratta di una rete di famiglie con dieci zii e cinquanta cugini giunti in Italia con i grossi flussi degli anni ’80 e ’90 del secolo scorso. Stabilitisi nelle varie città italiane vi hanno aperto ristoranti e attività commerciali che gli sono valsi l’immagine di “bravi cinesi, lavoratori indefessi”. Un esempio di successo di IBC è Agiè, il raviolaio di Milano, l’imprenditore che fa i ravioli con la carne italiana di qualità e che li ha trasformati nello street food per eccellenza della Chinatown milanese. Per il documentario sceglie di farsi intervistare in uno dei suoi ristoranti e viene ripreso mentre parla ai suoi dipendenti alternando il mandarino e il dialetto del suo paese. Più precisamente il dialetto Wu con la cadenza di Yuhu, paese da quasi 200 mila abitanti (e ne conta quasi altrettanti all’estero) che si trova nella municipalità di Wencheng della provincia di Wenzhou nella regione dello Zhejiang. Dialetto, insieme al cinese, che parlano anche giovani con un italiano perfetto, nati e cresciuti in Italia. Come Teresa Lin, che nel film ci racconta gli anni delle superiori nella scuola americana, la formazione negli Stati Uniti dove si laurea e l’attuale esperienza di consigliere comunale a Prato. Un esempio di cittadina che pur non rientrando nei canoni etnici dell’italianità ne è però una degna rappresentante.

In Cinesi d’Italia hanno voce anche componenti della cosiddetta prima generazione. Con loro possiamo rivivere il percorso che porta un giovane a emigrare dalla Cina in Italia. C’è chi è partito per paura come Wu Xiu Jun, presidente dell’Associazione italo-cinese di Torino. Wu racconta di come il padre avesse paura di perdere gli averi di famiglia e lo avesse mandato in Italia grazie all’aiuto di parenti e amici. Ricorda la fatica dei primi tempi in Italia o di come sia arrivato da clandestino in aereo. Episodi che fanno provare empatia e sorridere come storie ancora più particolari di chi è partito al posto di una sorella. He Xiao Hong, socia fondatrice dell’associazione Futuro Domani di Prato rivive la vivace conversazione con la madre dove le dice: “Vado io, mia sorella è troppo ingenua per affrontare il mondo esterno”. He si presenta all’intervista sprizzando forza e vitalità dalla camicia rosso fuoco e i lunghi capelli raccolti in uno chignon. Spiega che si è costruita una vita in Italia ma che vi rimane solo per i figli, perché nel fondo del suo cuore la Cina rimane sempre la sua casa.

Oltre allo zoccolo duro di famiglie dallo Zhejiang ci sono anche altre componenti, come gli studenti, provenienti da diverse parti della Cina e in tempi diversi che hanno fatto dell’Italia la propria casa dopo il percorso di studi. E’ il caso di un altro intervistato del documentario, Mao Wen, arrivato nel 1988 e oggi professore di lingua e letteratura cinese. Intervistato nel suo studio, Mao ricorda molto la figura dei junzi (gentiluomini) di un tempo che con in mano una tazza di tè o di baijiu, il famigerato liquore cinese, conversano con dolore e pathos del buon e del mal governo.

Oppure, ci sono singoli le cui storie sono fuori dai canonici percorsi di migrazione, figure di uomini e donne che non ci aspetteremmo. Sono persone che giungono in Italia per amore come Gu Ailian che incontra il marito a Shenzhen e lo segue a Torino dove studia come mediatrice linguistica e culturale e fonda un’associazione che aiuta le famiglie dello Zhejiang. O come Shi Yang Shi, che arriva in Italia da piccolo dalla nordica Jilin, diventa uno dei primi attori di origine cinese in Italia e si innamora di un ragazzo, Angelo Cruciani. Insieme, i due raccontano del loro primo incontro in Italia, della dichiarazione in Cina e del matrimonio nuovamente in Italia. “Non so spiegare – dice Shi Yang – l’alchimia di un amore ma non c’entra con l’essere italiano o cinese”. Già, perché questo documentario racconta storie che appartengono, innanzitutto, a persone. Fotografate con rispetto e amore.

Di Jada Bai*

*Jada Bai è docente di lingua cinese e organizzatrice di eventi culturali. Nata in Cina, si trasferisce a Milano da piccolissima con la famiglia. Si diploma al liceo classico Giosuè Carducci e si laurea successivamente in Scienze della Mediazione Linguistica e Culturale presso l’Università degli Studi di Milano. Studia per un periodo anche presso la Fudan University di Shanghai con una borsa di studio. Si occupa di comunità cinese e condizione femminile e ne ha scritto per varie testate giornalistiche. Dal 2013 è coordinatrice dei corsi di lingua cinese e organizzatrice di eventi culturali presso la Scuola di Formazione Permanente della Fondazione Italia Cina.