Pillole di Cina – Vietato ai cinesi e ai cani

In Cina, Cultura, Pillole di Cina by Isaia Iannaccone

«Faccia gialla», «zucca gialla», «faccia da limone», «limoncino», «limone spremuto», «canarino», «bambola di zafferano», «topastri color zafferano», «serpenti gialli». Voilà alcuni epiteti che un eroe dei fumetti, Tex Willer, dedica ai Cinesi in Quartiere cinese (1975), storia di sparatorie e scazzottate tra bianchi, impavidi cowboy e «fanatici», «infidi» e «viscidi» Cinesi che altro non sono se non «ometti» o peggio: «omettini».

Se poi diamo un’occhiata alla Letteratura, quella con la L maiuscola, ecco una perla fra le tante: «La costituzione dell’uomo giallo è diversa. Il consumo di oppio non lascia in lui quasi traccia», firmato Rudyard Kipling (1865-1936) il creatore di altri eroi come Mowgli il bambino cresciuto con i lupi, l’orso Baloo, la pantera Bagheera e altri indimenticabili personaggi de Il libro della jungla, ma anche colui che cercava di giustificare quello che J. K. Fairbank definisce «il più duraturo, sistematico, crimine internazionale dell’età moderna», ossia il lucroso traffico inglese di oppio in Cina. Ma, mi raccomando, ora non correte nel villaggio di Burwash nel Sussex orientale per abbattere la statua eretta in onore dello scrittore: la Storia – magistra vitae – si studia ma non si revisiona né tantomeno si cancella. E poi, se si dovessero conservare soltanto i monumenti, i ritratti e le opere di donne e uomini illuminati, irreprensibili e virtuosi, piazze, musei, biblioteche e cineteche sarebbero probabilmente vuoti…

A metà Ottocento, quando nel Far West dei fumetti operavano gli invincibili ma razzistelli Tex Willer e i suoi pard fatti di inchiostro e carta, in Cina erano gli uomini di carne e ossa a vivere i problemi della vita reale: le Guerre dell’Oppio e i Trattati Ineguali avevano portato sfacelo economico, dispersione delle famiglie, depauperamento delle campagne, emigrazione della popolazione contadina ridotta in miseria perché sottoposta a imposte, fitti agricoli, mutui e vessazioni insostenibili. I movimenti di esodo modificarono sensibilmente la ripartizione dei Cinesi in Asia Orientale: gli emigrati tesero verso le zone industrializzate della Cina del Nord, verso le terre inospitali della Manciuria, e verso i Paesi d’oltremare. Tra questi ultimi, gli Stati Uniti d’America, e precisamente in California, dove nel 1848 erano stati scoperti cospicui filoni di oro. La notizia si era sparsa per il mondo, e la California, per i Cinesi, divenne Jiujinshan 旧金山 (Antiche Montagne d’Oro), una vera e propria Terra Promessa (poi sarà la volta dell’oro australiano, e l’Australia fu chiamata dai Cinesi Xinjinshan 新金山, Nuove Montagne d’Oro).

Per sfruttare i giacimenti auriferi, in America serviva mano d’opera a buon mercato, e così venne organizzata la tratta di operai cinesi. Allettati dalla speranza di una vita migliore, sotto il controllo di spietati trafficanti di esseri umani, gli sventurati affrontavano il viaggio in navi definite “inferni galleggianti” in cui morivano a decine. Tra il 1853 e il 1867, l’incremento della produzione dell’oro aveva rinvigorito il movimento di emigrazione: partivano a migliaia coolie e poveri esseri umani ridotti alla fame e allo sfinimento che avrebbero fatto qualunque cosa per uscire dalla miserabile condizione in cui vivevano (o meglio: morivano…). I Cinesi, oltre che nelle miniere d’oro, erano impiegati in quelle di carbone e nella costruzione delle ferrovie per conto della Union Pacific Railroad Company, alcuni lavoravano come domestici ed erano presenti in numeri crescenti soprattutto negli stati di California, Nevada, Oregon, Wyoming e Washington.

Nel 1880, la concorrenza che gli immigrati cinesi, sfruttati a bassa paga, faceva agli operai “bianchi” che temevano una diminuzione dei loro salari, spinse il governo USA, sollecitato dai sindacati e dalle tensioni razziali, a sospendere le immigrazioni; il 6 maggio 1882 venne votato il Chinese Exclusion Act (Legge per l’esclusione dei Cinesi), che sospendeva l’immigrazione cinese (la legge fu abolita nel 1965).

E poi, nel 1885, in Wyoming, avvenne il massacro di Rock Spring…

Il 1885. Fu un anno emblematico in Cina come negli USA.

Proprio in quell’anno, all’estremità del bund, nella Shanghai frazionata in concessioni dagli occupanti occidentali, fu aperto il primo parco pubblico – oggi Huangpu Park. All’ingresso un cartello ricordava le dieci regole per accedervi: la prima recitava: «Riservato agli stranieri»; la quarta diceva: «Vietati cani e biciclette». Subito, le imposizioni furono sintetizzate in: «Vietato ai Cinesi e ai cani». L’esclusione fu tanto sentita dai Cinesi che fu più volte citata sia in ambiti politici prerivoluzionari e rivoluzionari che nelle narrazioni popolari: nel 1972, il una scena del film «Dalla Cina con furore» ambientato nel 1910 e interpretato dal campione di arti marziali Bruce Lee, si legge la placca “cinematografica” esposta fuori il Parco Huangpu: No Chinese, no dogs

Il 1885 è anche l’anno in cui, negli USA, maturarono fino all’acme i movimenti anticinesi. Nella decade 1870-1880 la popolazione cinese ea cresciuta a dismisura; nonostante il Chinese Exclusion Act i censimenti del Wyoming stimarono quest’aumento del 539%, da 413 immigrati «cinesi e polinesiani» (per dirla con le definizioni burocratiche dell’epoca) si era arrivati a 222mila; l’aumento fu dovuto soprattutto a spostamenti interni per via delle opportunità di lavoro che offriva la costruzione delle line ferroviarie nell’Ovest americano; la maggior parte di essi risiedeva a Rock Springs, cittadina che costeggia la ferrovia.

Fino al 1875 nelle miniere di carbone della Union Pacific erano impiegati soltanto minatori “bianchi”, per lo più inglesi, irlandesi, finlandesi e svedesi; questi, per ottenere migliori condizioni di lavoro organizzarono scioperi e manifestazioni contro la Union Pacific che risolse il problema sostituendo gli scioperanti con operai cinesi. Per tutto il mese di agosto a Rock Springs apparvero ingiuriosi e minacciosi cartelli contro gli immigrati dalla Cina accusati di essere dei crumiri.

Il 2 settembre, operai “bianchi” si recarono in una delle cave della miniera per espellere con la forza i minatori cinesi di cui uno morì negli scontri. Tempo poche ore, e un nutrito gruppo di “bianchi” armati di fucili e pistole entrarono nel quartiere cinese e cominciarono a sparare all’impazzata e a incendiare le case con chiunque vi fosse dentro. Una cinquantina di Cinesi furono assassinati mentre cercavano di fuggire, e corpi vennero trovati lungo la ferrovia, nei canali, nei boschi. L’intera Chinatown venne distrutta.

L’intervento dell’esercito, seppure in ritardo di due settimane, evitò che la carneficina continuasse contro i Cinesi fuggiti e poi rientrati. Furono arrestate 16 persone ritenute responsabili degli omicidi e degli incendi, ma furono scagionate e rilasciate dopo un processo-farsa, e all’uscita di prigione trovarono una folla plaudente. Il Governo americano mise dei mesi per riconoscere un risarcimento ma questo fu devoluto alla comunità cinese di Rock Springs soltanto per i danni materiali e non per la morte violenta dei suoi membri. Mentre il New York Times si scagliava con veementi articoli contro i politici del Wyoming e contro coloro che avevano assistito al massacro senza intervenire, i responsabili dei sindacati e molti politici diedero la colpa della tragedia alla mancata integrazione dei Cinesi rispetto alle abitudini e ai costumi americani. Soltanto nel mese di dicembre, il Presidente Grover Cleveland si espresse davanti al Congresso per stigmatizzare i pregiudizi razziali contro gli immigrati.

Le tensioni etniche crebbero negli anni. Nel 1905, i residenti cinesi, in cerca di giustizia, organizzarono il boicottaggio dei prodotti americani esacerbando ancora di più le posizioni razziste dei “bianchi”. Nello stesso anno, a Shanghai, venne pubblicato Ku shehui 苦社会 (La società amara), un romanzo in 48 capitoli che racconta la triste condizione dei coolie e dei disgraziati cinesi che vivevano nel sud degli USA, discriminati in una insostenibile apartheid; l’opera fu presentata come frutto degli scritti degli operai cinesi negli USA, ma, anche se la prima metà del romanzo non è linguisticamente sempre corretta (forse volutamente), la coinvolgente costruzione narrativa suggerisce che l’autore è forse un letterato o un team di letterati. Tra il 1905 e il 1906 apparvero anche altri scritti, canzoni e opere teatrali sul maltrattamento dei cinesi emigrati in America e sul boicottaggio delle merci americane.

Quanto ai giorni nostri, dove in USA sono uscite ancor più allo scoperto sacche consistenti di suprematisti bianchi, è scontato mettere in relazione gli attuali violenti movimenti antiasiatici – che hanno fatto morti e feriti – con le dissennate politiche anticinesi dell’era Trump e con la crisi sanitaria ed economica. Scontato per scontato, preferisco riflettere rileggendo John Steinbeck, scrittore impegnato nelle denunce civili e sociali, e premio Nobel per la letteratura nel 1962. Nel suo romanzo Furore (premio Pulitzer 1940) dedicato alla disperata emigrazione in California dopo il crack del 1929 e l’inizio della Grande Depressione, un meccanico mette in guardia la famiglia protagonista che migra in cerca di lavoro:

«Ieri ho contato fino a quarantadue autocarri del genere del vostro qui. Da dove diavolo venite tutti? E dov’è che ve ne andate?

Ah, la California è grande, certo, ma se credete ci sia posto per tutti sbagliate. Se credete ci sia posto per ricchi e poveri, grassi e magri, galantuomini e delinquenti, sbagliate di grosso. Perché non ve ne tornate a casa vostra?

Ma questo è un paese libero e uno non può forse andare dove gli pare e piace?

Già, questo è quanto credete voi. Mai sentito parlare della guardia di frontiera ai confini della California? Della polizia di Los Angeles? Vi fermano, sapete; son capaci di farvi tornare indietro. Vi chiedono la licenza di guida, e se non l’avete, se l’avete persa, non vi ci vogliono. Se non siete in grado di comperare terreni, vi dicono, non vi ci vogliamo. Un paese libero! Certo lo è, ma solo per chi può pagarsela, la libertà.»

Isaia Iannaccone*

**Isaia Iannaccone, nato a Napoli, chimico e sinologo, vive a Bruxelles. Membro dell’International Academy of History of Science, è specialista di storia della scienza e della tecnica in Cina, e dei rapporti Europa-Cina tra i secoli XVI e XIX. È autore di numerosi articoli scientifici, di trattati accademici (“Misurare il cielo: l’antica astronomia cinese”, 1991; “Johann Schreck Terrentius: la scienza rinascimentale e lo spirito dell’Accademia dei Lincei nella Cina dei Ming”, 1998; “Storia e Civiltà della Cina: cinque lezioni”,1999), di due guide della Cina per il Touring Club Italiano e di lavori per il teatro e l’opera. Ha esordito nella narrativa con il romanzo storico “L’amico di Galileo” (2006), best seller internazionale assieme al successivo “Il sipario di giada” (2007, 2018), seguiti da “Lo studente e l’ambasciatore” (2015), “Il dio dell’I-Ching” (2017) e “Il quaderno di Verbiest” (2019)