Pillole di Cina – Attenti a dove vi sedete!

In Cina, Cultura by Isaia Iannaccone

Vi racconto un episodio personale. Non lo faccio spinto da narcisismo ma per mettervi in guardia se mai vi trovaste in una situazione analoga. Certo, nel narrarvi questo affaire sarò costretto a svelare, mio malgrado, a quale generazione appartengo.

La cosa successe nell’estate del 1980. Allora, ero studente a Pechino presso lo Yuyan Xueyuan 语言学院 (Istituto di Lingue, oggi internazionalmente conosciuto come Beijing Language and Culture University). Oltre la lingua, vi si studiava anche la cultura cinese, e spesso noi studenti stranieri eravamo invitati a partecipare a brevi escursioni o viaggi di più giorni per conoscere il Paese e le sue caratteristiche. Ebbene, in agosto, dopo una notte di treno arrivammo a Shanghai. Un bus ci aspettava. Fummo subito condotti nella zona della città in cui in epoca coloniale sorgeva la concessione francese, e invitati a scendere davanti a un grazioso palazzetto in cui entrammo.

La guida cominciò a spiegare ma io, rimasto indietro perché stanco ed assonnato, non sentii nulla. Non vedevo l’ora di fare una pausa. Così, adocchiai delle sedie attorno a un bel tavolo sul cui ripiano erano sistemate ordinatamente delle tazze da tè. A quei tempi, che si andasse a visitare un ospedale, una comune popolare, una fabbrica, o un qualunque luogo d’interesse nazionale, prima di ogni visita ci venivano offerti tè e frutta mentre un dirigente prendeva la parola per raccontarci del luogo in cui eravamo; dunque, a Shanghai, in quell’edificio démodé, vedendo il tavolo imbandito pensai che era arrivato il momento del tè. Così mi sedetti dando sollievo alle gambe. Mi stupì leggere il segnaposto sistemato vicino alla tazza che avevo di fronte: «Mao Zedong 毛泽东 ». Un attimo, e dal nulla, sorse un cinese vestito di scuro, in giacca e cravatta, aveva l’aria possente; due passi e mi fu accanto, alzò il dito indice in aria e in modo molto deciso mi disse che stavo profanando il luogo. Profanando il luogo? Sì, aveva ragione, lo capii quando, agitando quel dito accusatore, mi informò che ero in un luogo importantissimo per la storia della Cina perché in quel palazzetto, nel Luglio 1921, attorno a quel tavolo si era tenuta la riunione di fondazione del Partito Comunista Cinese (PCC), che funse da primo congresso del Partito.

E io m’ero permesso di sedermi al posto di Mao…

Visto che quest’anno siamo nel centenario, vediamo un po’ più da vicino quella famosa assemblea che segnò la nascita del PCC. Diciamo subito che le fonti storiche non sono del tutto concordi su alcuni importanti dettagli della riunione fatta ovviamente in condizioni di segretezza assoluta. Per motivi di sicurezza non ci furono verbali, e non esistono documenti probanti; in più, ormai, i protagonisti di quella assemblea sono tutti scomparsi e le loro testimonianze di quando erano in vita presentano delle divergenze.

Innanzitutto la data. Il PCC festeggia la sua fondazione il 1° luglio, dunque prendiamo il 1° luglio del 1921 come data fondante. Però, alcune fonti d’epoca parlano del 5 luglio, altre del 9, o del 10, o del 20 luglio. L’ipotesi più plausibile per spiegare queste discordanze suggerisce che l’uso del calendario lunare da parte dei cinesi abbia creato problemi di trasposizione nel calendario lunisolare internazionalmente adottato.

Poi c’è il numero dei partecipanti alla riunione: c’è chi dice dodici e chi afferma tredici, comunque un “gruppuscolo” come diremmo oggi, che rappresentava appena cinquantasette aderenti. Mao Zedong, ventottenne, delegato della sua provincia, lo Hunan, era allora un semplice militante con un ruolo marginale, e nulla lasciava presagire la spettacolare posizione che avrebbe avuto di lì a qualche anno. Un osservatore olandese, delegato dell’Internazionale Comunista, partecipò al consesso: Maring, alias Henk Sneveliet, agitatore noto nelle Indie olandesi (Indonesia), che poi fu fucilato nel 1942 nel campo di concentramento tedesco di Amersfoort (Paesi Bassi); si racconta che mentre si recava all’esecuzione, cantasse “L’Internazionale”.

Anche la durata del congresso non è chiara. Da quanto affermato da uno dei partecipanti, Chen Gongbo 陳公博 che lasciò il Partito l’anno seguente e fu poi fucilato nel 1946 dai nazionalisti con cui aveva collaborato, la riunione  si svolse durante un paio di settimane: iniziò nel palazzetto di Shanghai – che era una scuola femminile – e terminò su un battello nel non lontano lago Nan, nella provincia dello Zhejiang, perché, per timore dell’arrivo della polizia, i comunisti riuniti interruppero la riunione e cambiarono location. Un altro dei convenuti, invece afferma che bastarono quattro giorni nella seconda metà del luglio 1921 per porre le basi della nascente organizzazione politica.

I fondatori, quasi tutti degli intellettuali che nel 1919 avevano attivamente partecipato al movimento di protesta contro le pretese giapponesi (“movimento del 4 maggio”), elessero in absentia alla testa del Partito Chen Duxiu 陈独秀 (che era rifugiato a Canton), professore universitario e notista politico per riviste e giornali marxisti; ricordiamo che nel 1927, dopo il colpo di stato di Chiang Kai-shek, Chen fu “invitato” a lasciare la direzione del Partito da cui, l’anno dopo, fu radiato.

Le posizioni dottrinali dibattute durante il congresso furono due: adottare il “marxismo legale”, ossia operare attraverso la stampa, la propaganda, le alleanze e l’azione parlamentare, oppure scegliere un iter radicale “avventurista” rifiutando qualunque alleanza con i partiti nazionalisti borghesi. Tra i fautori di questa seconda linea fu il ventiduenne Liu Renjing 刘仁静 che citiamo perché è singolare che in seguito venne accusato di “deviazionismo di destra” e cacciato dal Partito tanto che nel 1951 fu costretto a fare autocritica. Alla fine delle discussioni prevalse la linea isolazionista e di ostilità nei confronti di tutti gli altri partiti. Venne anche deciso che il novello Partito sarebbe stato quello della classe operaia sulla quale bisognava contare per fare trionfare la rivoluzione socialista (l’importanza della partecipazione dei contadini, che Mao definì «schiavi obbedienti», si rivelò soltanto anni dopo quando i comunisti diedero loro le terre confiscate ai proprietari terrieri, e li formarono alla partecipazione). Altre deliberazioni importanti furono quelle relative alle azioni immediate da intraprendere: educare gli operai, mettere in piedi dei sindacati moderni trasformando le associazioni corporative, organizzare scioperi. Sul piano organizzativo, il Partito si diede una direzione, un’organizzazione centralizzata, e uno statuto (seppure ancora embrionale).

Il 1° Marzo 2011, per celebrare il novantesimo anniversario del PCC, al Museo Nazionale della Cina, in Pechino, il governo inaugurò una mostra dal titolo evocativo “Il cammino verso la rinascita”; fra i materiali di propaganda mi colpì un film in stile hollywoodiano; tra i protagonisti della pellicola erano Lenin, il movimento bolscevico e, naturalmente, il piccolo gruppo di studenti, professori e intellettuali che, coerenti con le loro idee politiche e la loro esperienza di rivolta, avevano fondato il PCC.

Nel rinfresco inaugurale della mostra, quel giorno, feci ben attenzione a dove mi misi a sedere…

Di Isaia Iannaccone*

**Isaia Iannaccone, nato a Napoli, chimico e sinologo, vive a Bruxelles. Membro dell’International Academy of History of Science, è specialista di storia della scienza e della tecnica in Cina, e dei rapporti Europa-Cina tra i secoli XVI e XIX. È autore di numerosi articoli scientifici, di trattati accademici (“Misurare il cielo: l’antica astronomia cinese”, 1991; “Johann Schreck Terrentius: la scienza rinascimentale e lo spirito dell’Accademia dei Lincei nella Cina dei Ming”, 1998; “Storia e Civiltà della Cina: cinque lezioni”,1999), di due guide della Cina per il Touring Club Italiano e di lavori per il teatro e l’opera. Ha esordito nella narrativa con il romanzo storico “L’amico di Galileo” (2006), best seller internazionale assieme al successivo “Il sipario di giada” (2007, 2018), seguiti da “Lo studente e l’ambasciatore” (2015), “Il dio dell’I-Ching” (2017) e “Il quaderno di Verbiest” (2019)