La sola scelta turca di optare per un sistema missilistico cinese per la propria difesa aerea è stata considerata una vittoria per l’ambizione di Pechino di entrare nel mercato degli armamenti avanzati. La decisione presa a inizio ottobre da Ankara e l’accordo raggiunto con la China Precision Machinery Import and Export Corp (Cpmiec) per la fornitura del sistema FD-2000 sono stati definiti da molti uno spartiacque, piaccia o non piaccia agli alleati della Nato.
La Turchia fa parte dell’Alleanza Atlantica. Per gli altri Stati membri l’ipotesi di integrare un sistema made in China nella propria architettura di difesa aerea è considera alla stregua di un virus. “Non c’è spazio per la Cina in un sistema così critico”, ha spiegato un attaché militare di un importante Paese Nato citato dall’Hurryet Daily News. In più la Cpmiec è sotto sanzioni Usa per aver violato gli embarghi contro la Corea del Nord e l’Iran.
Il segretario Usa alla Difesa, Chuck Hagel, è atteso in Turchia a fine mese. Secondo quanto riporta il quotidiano Hurriyet News la data sarà il 27. In agenda la questione dei missili e rapporti sempre più sfilacciati tra Ankara e Washington, con le minacce di espulsione dell’ambasciatore Usa accusato di sostenere l’inchiesta sui casi di corruzione che stanno scuotendo il governo di Racep Tayyp Erdogan.
Sullo sfondo dell’accordo c’è la concorrenza che l’industria della difesa cinese pone a rivali con una maggiore tradizione, siano statunitensi, europei o russi, usciti sconfitti dalla gara d’appalto nella vicenda sino-turca. La stampa cinese non manca di sottolineare la preferenza sull’industria di casa. Dalla Turchia, anche in risposta alle critiche Nato, si mette l’accento sul fatto che l’offerta cinese rispettasse le richieste di Ankara sul prezzo.
C’è inoltre di mezzo la geopolitica e l’interesse del governo turco ad aderire all’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai di cui scrivono Raffaello Pantucci e Alexandros Petersen sul magazine The Diplomat. Le esportazioni di armi e sistemi per la difesa sono una parte importante della politica estera cinese. Lo ha spiegato in un’intervista alla rivista cinese Talent l’ex militare Chen Hongsheng, presidente del gruppo Poly, uno dei più importanti contractor d’oltre Muraglia nel settore e allo stesso tempo conglomerato con ramificazioni nell’edilizia e nella finanza, che l’anno scorso ha avuto profitti per 18,8 miliardi di dollari, il 38,9 per cento in più rispetto ai dodici mesi precedenti.
“La cooperazione in campo militare e tecnologico può promuovere lo sviluppo delle relazioni politiche, diplomatiche ed economiche tra i Paesi”, ha spiegato Chen, che nel 2010 prese il timone del gruppo sostituendo il fondatore della società, Wang Jun, figlio di Wang Zhen, uno dei cosiddetti otto immortali della rivoluzione cinese.
Le parole di Chen trovano riscontro nel successo dei viaggi del presidente Xi Jinping prima in Asia centrale, a ridosso del G20 di San Pietroburgo in Russia, e a ottobre nel Sudest asiatico, durante i quali agli accordi economici si accompagnavano intese in campo della difesa e della cooperazione militare.
Le armi cinesi non sono più brutte coppie di aerei, missili, sistemi russi. La base e le idee vengono ancora dalla Russia, o dagli Stati Uniti, come fa ipotizzare ad esempio il drone Wing Loog, che agli osservatori ricorda molto da vicino gli statunitensi MQ-9 Reaper. Ma gli ingegneri e la produzione cinese ha imparato a dare il meglio.
Come scriveva Defense News a novembre dell’anno scorso, durante il nono AirShow di Zhuhai, l’industria militare cinese è nel mezzo di una rivoluzione. Anche per questo una delle obiezioni ai tentativi di diversi Stati europei di far cadere l’embargo sugli armamenti imposto in risposta alla repressione di piazza Tian’anmen fa leva sul rischio che le compagnie europee si trovino a doversi confrontare con mezzi messi sul mercato dalla Cina, che in realtà sono sviluppati su modelli e su una tecnologia studiata in principio da loro stessi.
Lo scorso marzo la Repubblica popolare ha scavalcato la Gran Bretagna ed è diventata il quinto fornitore di armi al mondo, secondo i dati dell’Istituto di Stoccolma per le ricerche sulla pace (Sipri) che tengono in considerazione gli anni tra il 2008 e il 2012. Pechino viene subito dopo Stati Uniti, Russia, Germania e Francia.
Negli ultimi cinque anni, rispetto al periodo 2003-2007, le esportazioni cinesi di armi convenzionali sono cresciute del 162 per cento. La quota di Pechino nel mercato internazionale delle armi è passato invece dal 2 al 5 per cento. Oltre metà delle esportazioni cinesi di armi ha come destinazione il Pakistan, con il 55 per cento per essere precisi, che probabilmente anche nei prossimi anni continuerà a essere il migliore cliente di Pechino. Altri Paesi che guardano alle armi cinesi sono tra gli altri l’Algeria, il Marocco e il Venezuela. Ma non sfugge ad esempio che tra gli acquirente presenti lo scorso autunno a ZhuHai spiccava la delegazione sudanese. D’altronde, anche per assicurarsi risorse energetiche la Cina non ha mancato di vendere armi nel continente africano.
Paesi abituati a stare ai primi posti nell’indice del Sipri hanno scoperto un outsider, scriveva il Quotidiano del Popolo, voce ufficiale del Partito comunista cinese, nel commentare l’accordo da 3,4 miliardi dollari con Ankara. Secondo l’analista militare Li Li, l’industria militare della Cina ha fatto il suo ingresso tra le potenze del settore. Anche se tra la diffidenza di Washington e gli alleati.
[Scritto per AirPress]