Pechino non cede alle minacce, i negoziati continueranno

In Cina, Relazioni Internazionali by Simone Pieranni

Domenica, con un tweet, Donald Trump ha annunciato l’aumento dei dazi a carico delle merci cinesi (per un valore di 200 miliardi di dollari) dall’attuale 10 per cento al 25 per cento, a partire da venerdì.

Questa – se sarà confermata – era la volontà già espressa dalla Casa bianca mesi fa, poco prima che venisse stabilita una tregua con Pechino e l’inizio di round negoziali – giunti all’undicesimo appuntamento – alla ricerca del compromesso. Le cause: i continui ripensamenti della Cina, a detta di Trump, destinati a sabotare un eventuale compromesso.

SUBITO DOPO L’ANNUNCIO di Trump, mentre le borse asiatiche e quelle cinesi in particolare franavano in modo rovinoso (Shanghai a meno 5,58%, Shenzhen 7,38%) portando con loro anche i listini di mezzo mondo, da Pechino arrivavano notizie poco confortanti sulla possibilità da parte della Cina di presenziare agli incontri previsti a Washington domani. Invece, alla fine, per bocca del ministero dell’interno cinese, si è appreso che «la delegazione di Pechino sta lavorando all’incontro». Contrariamente a quanto si pensava – inoltre – a Washington ci sarà anche Liu He, fedele alleato di Xi Jinping e capo negoziatore della Cina.
In questi ultimi mesi i dieci round negoziali non erano stati in grado di trovare un compromesso più volte annunciato: le distanze, almeno secondo Washington, vertevano principalmente su due temi, la legge sulla cybersicurezza cinese e la conseguente mancanza di «reciprocità» nel rapporto commerciale tra Cina e Usa e la questione legata alle accuse di furto e spionaggio industriale nei confronti di Pechino.

A metà aprile sembrava tutto ormai in dirittura d’arrivo: rumors da Pechino davano la dirigenza cinese quasi pronta a rivedere la propria legge sulla sicurezza di internet, consentendo maggiore agibilità alle aziende americane. La norma, approvata l’anno scorso, prevede che tutti i dati raccolti dalle società straniere in Cina, debbano «risiedere» su database – o cloud – in Cina. Insieme a questo, Pechino – alla recente Assemblea nazionale – ha approvato una legge che dovrebbe aprire a maggiori spazi per investimenti stranieri, benché le prime analisi del procedimento non abbiano evidenziato grandi cambiamenti rispetto al recente passato.

QUANTO ALLE ACCUSE DI FURTO e spionaggio, potrebbe avere pesato e non poco sulla decisione di Trump – tutta da verificare nella sua effettiva operatività – la recente confessione di un ex agente Cia che avrebbe fornito prove del suo «lavoro» in favore dell’intelligence cinese che, secondo l’accusa dell’Fbi, avrebbe aiutato Pechino a smantellare una cellula della Cina, portando alla morte e all’arresto di almeno 22 «operativi» in terra cinese. Si tratta della peggiore debacle nella storia dell’agenzia in Cina. Eppure anche su questo aspetto Pechino sembrava aver limato molti dei punti in discussione, attraverso una nuova norma che punisce, o punirebbe sarebbe più corretto affermare, chiunque trafughi know e brevetti da aziende straniere.

UNA NORMA di difficile attuazione considerata la vasta rete di «collaboratori» che l’intelligence cinese ha in tutto il mondo industriale e tecnologico e considerando l’acquisto di aziende Usa da parte di proprietà cinesi, sempre pronti a riversare il know how in Cina. Adesso, però, tutta l’attenzione è concentrata sulla possibilità o meno di evitare questa frattura. L’amministrazione Trump aveva già imposto il 25% di tariffe su 50 miliardi di dollari di beni tecnologici cinesi nel giugno 2018; l’obiettivo era quello di contrastare la crescita tecnologica cinese, pronta a superare quella americana entro il 2030. Poi – nel settembre scorso – la Casa bianca ha imposto tariffe doganali del 10% su 200 miliardi di merci su una gamma più ampia di prodotti che vanno dal settore alimentare a quello della sicurezza.

SONO QUESTE LE TARIFFE che potrebbero essere aumentate al 25%, mentre negli Usa ci si chiede il motivo del tweet di Trump, considerando che nel breve periodo le sanzioni potrebbero favorire l’America first del presidente. Ma non pochi analisti ritengono che invece, sulla balestra temporale più lunga, potrebbero diventare un clamoroso boomerang.

[Pubblicato su il manifesto]