«Pechino deve ridurre le ingiustizie per garantire stabilità»

In Cina, Economia, Politica e Società by Alessandra Colarizi

“Life in China Is Getting Harder, and Xi Jinping Should Worry”. E’ il titolo scelto da Bloomberg per introdurre un recente articolo sulle palpabili ricadute sociali della guerra commerciale con Washington e l’aumento dei prezzi della carne innescato dalla peste suina. Stando all’agenzia di stampa statunitense, i dati economici preoccupanti degli ultimi mesi avrebbero cominciato a compromettere l’umore popolare prima ancora di pregiudicare sensibilmente l’andamento del Pil. La leadership sembrerebbe pensare lo stesso. Come ammesso dal vicepremier Hu Chunhua, il rincaro dei generi alimentari causato dalla moria di maiali rischia di “influenzare seriamente la vita dei residenti urbani e rurali, in particolare le persone con reddito basso, turbando l’atmosfera gioiosa in vista del 70 ° anniversario della fondazione della Nuova Cina”. In gioco c’è addirittura “l’immagine del partito e del governo”.

E’ dal massacro di piazza Tian’anmen che gli osservatori tendono ad associare la stabilità politica del paese alla crescita economica e alla sua ripartizione più o meno equa tra la popolazione. Come se il benessere materiale fosse prerequisito essenziale per il mantenimento di un tacito “mandato celeste”. Ma è proprio così? Non proprio, almeno per Martin K. Whyte, professore emerito di sociologia presso l’Harvard University. Secondo Whyte, autore di diversi saggi sulla Cina post-maoista, a minacciare veramente la longevità del regime comunista non è l’ineguaglianza bensì l’ingiustizia. China Files lo ha intervistato in occasione dell’anniversario della Repubblica popolare.

L’economia cinese rallenta, ma c’è chi ritiene che la vera sfida per Pechino stia nella distribuzione iniqua della crescita. Quale pensa sia il fattore che ha contribuito di più all’aumento della disuguaglianza sociale negli ultimi decenni? Alcuni attribuiscono buona parte della colpa all’hukou, il sistema che vincola l’accesso ai servizi al luogo di residenza, penalizzando i lavoratori migranti. Concorda?
Concordo sul fatto che, dal 1978, il sistema dello hukou e la discriminazione sistematica nei confronti dei cittadini con origini rurali abbiano contribuito alla crescente disparità di reddito, ma questo è solo uno degli elementi di un sistema molto più ampio di barriere locali che ha le sue radici nelle istituzioni socialiste dell’era maoista; un paradosso considerato che Mao è stato generalmente considerato un promotore dell’uguaglianza. Quindi non si tratta solo di disuguaglianze tra città e campagne, ma anche regionali e provinciali, e persino a livello locale, come testimonia il boom economico di Dalian a dispetto della rust belt nella provincia del Liaoning. Queste disparità geografiche hanno causato diseguaglianze crescenti nella concorrenza di mercato con il sostegno dello stato, soprattutto prima del 2000. Sebbene negli ultimi anni la Cina e gli Usa abbiano raggiunto livelli simili di disuguaglianza di reddito – come testimoniato dal coefficiente Gini – in Cina il fenomeno è più un prodotto di questi fattori di localizzazione e meno di differenze di classe rispetto agli Usa. Detto questo, le disuguaglianze di classe sono aumentate nell’era delle riforme, da quando l’accentramento delle proprietà immobiliari in alcuni casi ha fatto slittare il reddito familiare.

Come può intervenire il governo per ridurre queste disparità?
Fino in tempi recenti, lo sforzo delle politiche statali per promuovere uno sviluppo più equo (pensiamo alla «società armoniosa» di Hu Jintao) è stato sommerso da altre politiche che continuano a favorire i più agiati, come la privatizzazione dell’edilizia urbana e la massiccia espansione delle iscrizioni universitarie dopo il 1998. A ciò si aggiunge lo scarso impegno dimostrato per combattere le crescenti disparità di reddito (una priorità meno impellente oggi di quanto non lo sia stato sotto Hu, nonostante Xi aspiri a sconfiggere la povertà entro il prossimo anno). Ad esempio, la Cina deve ancora sviluppare e applicare un sistema nazionale di tassazione delle proprietà e di imposte sulle successioni. È inoltre necessario eliminare più radicalmente le discriminazioni basate sullo hukou e investire nel miglioramento dell’istruzione rurale così come nell’accesso agli studi per i giovani migranti.

Quindi la lotta alla povertà ha solo funzioni di propaganda?
In realtà, alcune statistiche e sondaggi suggeriscono una stabilizzazione dell’aumento delle disparità già intorno al 2007-2009. Da allora, come sostengono i dati ufficiali e le indagini del China Household Income Project, potrebbe esserci stato un lieve calo. Ma, in termini comparativi, l’ineguaglianza continua ad attestarsi su livelli piuttosto alti e il calo è attribuibile molto meno alle politiche redistributive dello stato di quanto non lo sia a cause correlate alle tendenze demografiche, al numero decrescente di nuova forza lavoro a partire dal 2010 nonché al conseguente aumento dei salari dei migranti.

Oltre all’hukou, molti rintracciano il germe della diseguaglianza nella riforma delle aziende pubbliche avviata negli anni ’90. Sotto Xi Jinping il settore statale sembra vivere una nuova rinascita a discapito delle aziende private, a cui però si deve il contributo maggiore in termini di crescita e occupazione. Cosa ne pensa?
Concordo. Sotto Xi Jinping le politiche statali hanno compiuto un balzo indietro, favorendo le imprese statali e questa regressione probabilmente renderà più difficile mantenere stabile o addirittura aumentare il tasso di crescita economica. Ma questa tensione tra stato e settore privato è un dilemma di lunga data, dovuto al fatto che, nel perseguire le riforme di mercato, Pechino ha scelto di non seguire l’approccio del “big bang” dell’Europa orientale privatizzando rapidamente le SOE. Piuttosto, come spiega Barry Naughton, la Cina di Deng Xiaoping ha seguito un approccio di “crescita fuori dal piano” [Growing Out of The Plan], consentendo alle aziende private e straniere di svilupparsi pur continuando a supportare le imprese statali così da modernizzarle e renderle più competitive. Ma anche se il settore pubblico ha migliorato in parte le sue prestazioni – nonostante l’appoggio governativo – non è stato in grado di tenere testa ai competitor privati e stranieri. Come afferma l’economista Nicholas Lardy in The State Strikes Back, con l’arrivo di Xi Jinping l’inversione è stata più netta rispetto ai precedenti leader cinesi. Quindi dovremo vedere come si svolgerà questo dibattito in futuro. Sembra improbabile che se i leader cinesi vogliono aumentare il tasso di crescita economica, possono mantenere o addirittura aumentare il favoritismo statale nei confronti di imprese statali meno produttive.

I media occidentali spesso associano il rallentamento economico al rischio di proteste e a un possibile crollo del regime. A dire il vero, per il momento, i cittadini sembrano più preoccupati dagli scandali sui vaccini e la costruzione di fabbriche inquinanti.
Concordo sul fatto che la crescita economica non significa molto per i cittadini. Ciò che conta veramente è innanzitutto la percezione della giustizia o dell’ingiustizia sociale, oltre all’ottimismo o al pessimismo verso il futuro, e alle possibilità di migliorare la vita delle proprie famiglie. Il problema reale non è la disuguaglianza ma l’iniquità. Dalle mie ricerche è emerso che sono soprattutto le ingiustizie procedurali a creare malcontento: il trattamento iniquo da parte dei funzionari locali, l’incapacità di ottenere protezione o una compensazione in caso di trattamento ingiusto. Sulla base degli ultimi sondaggi non mi pare di riscontrare tendenze che lascino intravedere nel calo dell’economia la fonte di potenziali proteste. I leader cinesi possono adottare politiche volte a stimolare la crescita economica e a ridurre le disparità di reddito. Ma per ovvie ragioni non sono in grado di attuare importanti riforme politiche per eliminare le ingiustizie procedurali che sono la principale fonte di instabilità sociale.

[Pubblicato in forma ridotta su il manifesto]