Panda e lupi, cosa sta succedendo nel Partito comunista cinese

In Cina, Economia, Politica e Società by Simone Pieranni

In queste settimane durante le quali il virus si è diffuso in modo preoccupante nel mondo, mentre registra un vistoso calo in Cina (oggi nell’Hubei la situazione sembra tornare piano piano alla normalità), Pechino si è impegnata in uno sforzo diplomatico senza precedenti.

Da tempo in Cina si riflette su quale tipo di governance adottare per gestire la sempre più ampia influenza cinese nel mondo; intellettuali e funzionari si sono confrontati su diversi approcci, ma il Covid-19 ha finito per accelerare i tempi: con gli Usa che sembrano perdere sempre più la fiducia internazionale (con Trump sono sempre meno un riferimento per l’Occidente) la ripartenza della Cina e la sua narrazione (da epicentro del virus a epicentro degli aiuti) impongono alla leadership la freddezza che serve nei momenti cruciali della storia.

Ogni giorno Xi Jinping manda un messaggio di solidarietà a un leader straniero (dall’Italia all’Egitto, dal Pakistan alla Spagna), mentre l’invio di aiuti medici (prodotti quasi tutti in Cina a conferma che nella filiera globalizzata i cinesi hanno un grande potere) ha dato luogo a quella che viene definita «la diplomazia delle mascherine».

Il Japan Times, non senza sollevare alcuni dubbi su questa nuova dinamica, ricordava che è soprattutto in Asia che la Cina sta spingendo su questo approccio: «Nelle ultime settimane Pechino ha donato centinaia di migliaia di maschere chirurgiche e kit di test alle Filippine e al Pakistan, ha inviato squadre di medici in Iran e Iraq e ha esteso un prestito di 500 milioni di dollari per aiutare lo Sri Lanka a combattere il virus».

È evidente la traiettoria di questo impegno, confermato anche dagli aiuti a Italia e gran parte dei paesi dell’est europeo: la Nuova via della Seta torna di moda, concepisce infrastrutture dove corrono gli aiuti medici (senza dimenticare il peso sempre più ingente della Cina nel mercato mondiale dei farmaci) e utilizza mascherine e kit come nuovo strumento in grado di inchiodare i governi alle politiche di Pechino.

Specie in Asia, dove le resistenze alla Nuova via della Seta non erano state nascoste da molti esecutivi. In soldoni: se mai finirà questa emergenza internazionale, per alcuni paesi sarà dura poi usare un atteggiamento forte e sospettoso nei confronti di chi ha dispensato aiuti in un momento di grande difficoltà. O almeno questo, possiamo supporre, è quanto pensano i funzionari cinesi.

Ma questa rinnovata postura estera cinese, voluta e spinta da Xi Jinping e basata sulla «comunità dai destini comuni», caratteristica essenziale del «sogno cinese» del leader, sembra non essere completamente condivisa all’interno del Partito comunista.

Ci sono tre ambiti che meritano un’attenzione particolare: l’atteggiamento di alcuni funzionari rispetto agli Usa, alcune voci critiche nei confronti di Xi Jinping e l’insolita previsione economica negativa arrivata nei giorni scorsi dalla China International Capital Corporation cui si sommano i dubbi sulla disoccupazione scaturita dalla crisi dovuta al Covid-19.

PANDA E LUPI

In particolare, alcune frange del Pcc sembrano voler sfruttare l’occasione per regolare i conti con gli Stati Uniti, accusati neanche troppo velatamente di essere l’origine del virus.

A esporsi in questo senso è stato Zhao Lijian, portavoce del Ministero degli Affari esteri, in una serie di tweet. Prima che i suoi messaggi venissero ritrattati, la bufera era già scoppiata.

Come sottolinea Bill Bishop, uno dei più attenti tra i China Watchers, se ufficialmente il Pcc ha provato a correre ai ripari, su molti media locali le parole di Zhao continuano a essere diffuse e supportate: «Zhao sembra popolare tra la maggior parte del pubblico cinese, e ha chiaramente risposto alla precedente richiesta di Xi per un maggiore “spirito combattivo” da parte dei diplomatici cinesi. In Cina – prosegue Bishop nella sua Sinocism – il Ministero della Propaganda non sembra respingere la diffusione dell’origine del virus e le voci anti-americane di Zhao o di altri sui media ufficiali e sui social media. Wang Huning e il suo sistema di propaganda permetterebbero a questa spazzatura di rimanere senza censure se Xi fosse contrario?»

Ecco il punto: queste voci sono in qualche modo sopportate dalla leadership o servono – in un gioco tutto interno – per dimostrare che al di là di alcuni falchi la linea del Pcc rimane quella «responsabile»?

Stando a un editoriale uscito martedì sul China Daily, in inglese, questa sembrerebbe la linea, in attesa di sapere se Zhao verrà in qualche modo rimosso. Il commento del quotidiano cinese in lingua inglese specificava infatti che discutere dell’origine del virus non ha senso e che invece bisogna dedicarsi ad aiutarsi per uscire insieme da questa crisi.

Ma i dubbi rimangono, specie alla luce di una piuttosto insolita intervista dell’ambasciatore americano Cui Tiankai ad Axios, nella quale prende apertamente le distanze dalle dichiarazioni di Zhao. L’ambasciatore cinese negli Usa, originario dello Zhejiang e nominato nel suo ruolo da Xi Jinping nel 2013, ha specificato che Pechino e Washington sono «sulla stessa barca e dovrebbero combattere insieme il coronavirus», aggiungendo che i due Stati dovrebbero «cooperare per affrontare le sfide globali», mettendo in guardia contro una sorta di scontro politico sull’origine del virus.

Una posizione che sembra ricalcare quella che viene attribuita a Xi Jinping e che sembra aver riportato nei binari voluti dalla leadership la polemica scatenata dal portavoce del ministero degli esteri.

CRITICHE ALLA LEADERSHIP

A destare particolare attenzione nelle ultime settimane sono state due lettere, pubblicate da Zhao Shilin, un professore in pensione ed ex membro del Comitato Centrale nonché vicedirettore della Commissione Cultura e Arte.

In due missive inviate a Xi Jinping non risparmia critiche pesanti: nella prima lettera (tradotta in inglese da China Digital Times), il 23 febbraio, affermava che il governo aveva perso del tempo fondamentale per combattere l’epidemia, riprendendo dunque le critiche sui ritardi dell’intervento cinese per combattere subito il virus: «Le lezioni che dobbiamo imparare sono indicibilmente dolorose. Le perdite, incommensurabili», ha scritto l’ex funzionario.

Nella seconda lettera viene affrontato il tema di Li Wenliang, il medico che fu tra i primi a denunciare l’esistenza di un ceppo anomalo di polmonite e deceduto a seguito del virus, a 34 anni (punito poi riabilitato infine martirizzato dal Pcc con un’inchiesta che attribuisce le responsabilità del suo trattamento agli errori della polizia di Wuhan).

Zhao Shilin è durissimo: «Questa catena di eventi perversa ha messo a tacere tutti i fornitori di servizi sanitari, ostacolando in modo critico la tempestiva divulgazione di informazioni da parte di professionisti in prima linea e portando alla rapida diffusione dell’epidemia. Se le misure preventive fossero state adottate tempestivamente a dicembre o gennaio, l’epidemia sarebbe stata molto più contenuta. Qualcuno ha fatto i calcoli: se all’inizio di gennaio fossero state prese misure di controllo e prevenzione, il numero di infetti non avrebbe superato le 1.000 persone. Non ci sarebbero stati più di 40 morti. Li Wenliang ha messo in mostra la soppressione dell’opinione pubblica e delle informazioni».

Lettere di funzionari in pensione non sono così rare come si potrebbe pensare e spesso rimangono gocce nell’oceano in cui nuotano i sofisticati rapporti interni del partito comunista. L’elemento particolare in questo caso, non è stato tanto la stesura di queste lettere, quanto la sua diffusione. Come al solito, non è tanto importante il messaggio, quanto la sua viralità e se non viene immediatamente eliminato, perché significa che qualche funzionario pone meno zelo nel difendere l’operato di Xi Jinping.

L’ECONOMIA

Esiste poi un terzo problema che sta procurando qualche grattacapo al partito comunista nonostante la rinnovata narrazione indichi una forza e una capacità di influenzare altri paesi non da poco. Lunedì scorso la China International Capital Corporation (CICC) – la principale banca di investimento del paese – ha «sbalordito molti dei circoli finanziari cinesi – ha scritto il South China Morning Post – tagliando drasticamente le sue previsioni di crescita del Pil per il 2020 a un minimo record del 2,6%, dal 6,1% a gennaio».

Il fatto strano è il seguente: raramente una banca in Cina è foriera di cattive notizieMai lo è di notizie tragiche.

Il calo del Pil al 2,6 costituirebbe infatti un segnale allarmante per quanto riguarda l’economia interna, traino potenziale del paese, finendo per portare con sé riflessioni su altri temi come ad esempio quello della disoccupazione, sui cui numeri per ora non c’è certezza assoluta ma potrebbero diventare un altro terreno di scontro all’interno del Partito.

L’economia più di tutto potrebbe infatti causare problemi alla leadership di Xi Jinping, tenendo conto il mantra della dirigenza, «il mantenimento della stabilità», complicato da ottenere se il paese improvvisamente dovesse stringere la cinghia dopo un anno già complicato dai dazi e gli ultimi mesi terribili per il Covid-19.

[Pubblicato su il manifesto]