Occhi su Taiwan

In Economia, Politica e Società, Relazioni Internazionali by Redazione

Visioni e fatti su Taiwan. L’articolo fa parte dei contenuti selezionati (3° posto) tra quelli che hanno partecipato all’essay competition organizzata da China Files in collaborazione con Hikma, associazione studentesca dell’Università di Bologna. Oltre alla pubblicazione del contenuto, i vincitori hanno ricevuto agevolazioni alla partecipazione della China Files School: edizione 2022

Taiwan oggi è molte cose, spesso in contraddizione fra loro. Si tratta di uno Stato di fatto, ma non di diritto, dato che controlla un determinato territorio e la sua popolazione ma che non è riconosciuto formalmente da tutti i paesi del globo tranne 14; eppure ha relazioni profonde con molti Stati e una rete diplomatica composta da 111 posti diplomatici. Questa è la conseguenza dell’operato della sua nemesi: la Repubblica Popolare Cinese (RPC) che vede Taiwan come una provincia ribelle, imponendone il non riconoscimento a Stati, imprese e individui. L’Economist definì Taiwan il posto più pericoloso al mondo nel 2021 ma la portata della minaccia varia a seconda di chi parla; inoltre è spesso affiancata a Hong Kong, Tibet, Xinjiang, o Ucraina, ma si distingue con forza, rappresentando un unicum nel sistema internazionale.

Taiwan è divenuta un modello per molti sotto molteplici punti di vista, sin a partire da quando negli anni ’60 fu rubricata come una delle quattro tigri asiatiche, ma se per molti è un’ispirazione, per altri è un incubo.  La verità sembra stare negli occhi di chi guarda in relazione alla Repubblica di Cina (RdC) e questo ha avuto ed ha importanti ripercussioni per la sorte dell’isola e per gli equilibri regionali e globali.

È certo che si tratti di diverse isole, la cui principale è Formosa, locate sul bordo occidentale dell’Oceano pacifico, all’intersezione fra Mar Cinese Orientale e Meridionale. Oggi Taiwan è abitata da circa 24 milioni di persone, la cui quasi totalità di etnia Han, ed è una democrazia consolidata e all’avanguardia, con un’economia in espansione e a capo della supply chain dei micro-conduttori. La posizione di Formosa è nevralgica a livello regionale: sia rispetto alle vie di comunicazione marittime, sia perché parte della “prima catena di isole” che aprirebbe la strada a Pechino verso l’oceano Pacifico, fondamentale per le sue ambizioni egemoniche.

La RdC nasce nel 1949 dopo le sconfitte subite nella guerra civile cinese, quando i nazionalisti di Chiang Kai-shek si ritirarono a Formosa, aspettando il momento giusto per riconquistare il paese. La scelta ricadde su quest’isola per il livello di sviluppo avanzato e l’assenza di comunisti dovuti al passato nipponico dell’isola e per i 160 km di mare che la separano dalle coste cinesi. Mare però mai più ri-oltrepassato alla conquista della Cina continentale. In seguito, nel 1971 la RdC venne espulsa dal seggio permanente del Consiglio di Sicurezza, in favore della RPC e fu da questa progressivamente isolata ed esclusa dalle maggiori organizzazioni internazionali.

Le relazioni fra i due lati dello Stretto di Taiwan sono sempre state contrastanti; nel 2016, però, il cambio di rotta segnato dall’inizio della presidenza Tsai Ing-wen del Partito Progressista Democratico (DPP), ha posto fine al periodo più conciliante vissuto sotto la presidenza di Ma Ying-jeou del Kuomintang (KMT) che aveva portato a 23 accordi fra le due Cine e alla partecipazione taiwanese a diverse organizzazioni. Il principale motivo del rapido peggioramento dei rapporti fu dovuto al mancato riconoscimento del Consenso del 1992 o principio di “un’unica Cina, secondo cui esiste un’unica Cina che comprende sia Formosa che la Cina continentale. Tale principio è sempre stato interpretato diversamente, ovvero la RPC e la RdC non concordano su quale governo sia legittimato a governare la “Cina unica”. In una sorta di “agree to disagree” che permise un temporaneo ravvicinamento dagli anni ’90 e soprattutto fra 2008 e 2016. Il mancato riconoscimento è mal visto da Pechino, poiché complica la strada verso la riunificazione, prospettata da Xi Jinping nel quadro politico di “un Paese, due sistemi”, da realizzarsi entro il 2049.

Ma al mancato riconoscimento del principio e alle successive pressioni cinesi vanno aggiunti altri fattori per spiegare la brusca svolta nelle relazioni. Entrambi i lati dello stretto sono profondamente cambiati dal 1992: Pechino è diventata molto più potente a livello economico, politico e diplomatico, influenzando sempre di più le organizzazioni internazionali, in più vanno considerati il crescente nazionalismo ed aggressività cinese e l’ascesa di Xi. Intanto, a Taiwan si è formata e consolidata una forte identità taiwanese: oggi più del 60% della popolazione si definisce solo taiwanese, mentre circa il 30% sia cinese sia taiwanese e ciò complica i piani di unificazione di Xi, che sia pacifica o no. Inoltre, il sentimento di “taiwanesità” è stato decisivo nelle elezioni del 2016 e 2020 per le vittorie di Tsai, che è riuscita ad incarnarlo e alimentarlo grazie a misure per rendere Taiwan meno sinocentrica. Infine, sempre più taiwanesi affermano di non desiderare l’unificazione o l’indipendenza immediata, sostenendo invece lo status quo con sfumature diverse.

Taiwan oggi

Recentemente Taiwan si è distinta grazie all’efficace gestione della pandemia; infatti, con la strategia “zero covid” Taipei è riuscita a rimanere quasi immune, dimostrando come anche le democrazie possano gestire efficientemente la pandemia e ricavando soft power e un rafforzamento dell’identità quando le immagini della vita “normale” si sono diffuse. La RdC è infatti riuscita nel contenimento grazie a numerosi fattori, fra cui: un sistema sanitario efficiente ed inclusivo, chiusura verso l’esterno, giuste decisioni politiche, contact-tracing e vaccinazione; ma l’efficacia gestionale è solo una dei successi di Taipei. Infatti, Taiwan sta vivendo un’ascesa geopolitica, basata anche sull’autorappresentazione come antitesi democratica della RPC. La RdC è difatti una giovane e vibrante democrazia, campione di diritti civili e “rifugio” asiatico della libertà di espressione e pensiero: qui, infatti, si sono trasferiti numerosi giornalisti e organizzazioni internazionali.

Sebbene Taiwan sia una democrazia solo dal 1996 ci sono già state 3 transizione pacifiche di potere fra i principali partiti: KMT e DPP; i tassi di partecipazione sono altissimi e la popolazione è frequentemente consultata, mentre la tecnologia è stata integrata con successo rendendo l’isola una digital democracy. Inoltre, secondo l’Economist si tratta dell’ottavo paese più democratico al mondo e il primo in Asia. Dunque, la liberal-democrazia è divenuta velocemente un tratto fondamentale e irrinunciabile dell’identità di Taiwan. Carattere democratico e prosperità di Taipei infine dimostrano come la democrazia e il capitalismo siano adatti per la popolazione cinese, fornendo un’alternativa alla strada intrapresa dalla Cina comunista.

Inoltre, in questa nuova narrativa, Taipei cerca sempre più di presentarsi come una forza costruttiva e responsabile, collaborando con i vicini, costruendo connessioni globali e aderendo a sforzi e protocolli internazionali (pur non potendoli firmare). Infatti, nel 2016 è stata lanciata la New Southbound Policy per facilitare il commercio e gli scambi di persone con i paesi del sud est asiatico.

Taiwan si pone sulla scena internazionale anche grazie al suo semi-monopolio nella fabbricazione di semiconduttori, centrali nella competizione tecnologica globale, inoltre la recente crisi di microchip ha contribuito alla “riscoperta” occidentale di Taipei. Questo settore è fondamentale per Taiwan poiché, oltre a rappresentare circa il 30% del PIL, funge da leva diplomatica e scudo con la RPP; le sue aziende fanno da “ambasciatori tech” e si inseriscono nelle relazioni con altri Stati; infatti, esse sono interdipendenti con l’estero per domanda e realizzazione dei microchip, la cui filiera produttiva è transnazionale, compartimentata[27] e sempre più democratica grazie alle pressioni USA. Dunque, appare essenziale per Taipei non esportare il proprio know how avanzato e non diversificare la catena di approvvigionamento[28].

In questo quadro, oggi le priorità di Taiwan sono, oltre alla gestione della pandemia: impedire una riunificazione forzata, migliorare la capacità di deterrenza, continuare a crescere economicamente, assicurarsi il libero accesso alle rotte commerciali e il maggiore sostegno possibile della comunità internazionale[29].

Usa e Cina

Gli interessi delle due principali potenze mondiali si intersecano su Taiwan: per Pechino l’isola rappresenta ancora il “secolo delle umiliazioni” e serve per il ringiovanimento nazionale e per la posizione geografica; l’approccio della RPC è multiforme, spaziando fra disinformazione, destabilizzazione, pressioni economiche, voli militari vicino l’isola (per obbligare Taipei a accettarne implicitamente la sovranità), cyberattacchi e investimenti per convincere paesi terzi a disconoscere la RdC, misura che riduce la legittimità formale e impedisce che le richieste di partecipazione taiwanesi in contesti internazionali siano verbalizzate. Queste strategie puntano a spingere all’unificazione volontaria e a normalizzare l’influenza comunista. Infine, visti gli sterili rapporti politici e le ottime relazioni economiche fra RdC e RPC, possiamo definire il rapporto come “hot economics, cold politics[30].

Gli USA invece, consci dei legami con Taipei, delle conseguenze per la credibilità, leadership e sistema di alleanze statunitensi, oltre che per la corsa tecnologica e per lo status del dollaro, non possono perdere Taiwan[31]. L’approccio americano si fonda sulla ambiguità strategica, derivante dal Taiwan Relations Act del 1979, che con un carattere vago permette un ampio margine di manovra nel proteggere la RdC, pur non riconoscendola ufficialmente, seguendo il principio di “un’unica Cina”[32].

Le potenze si accomunano quindi per approcci flessibili e timore verso l’indipendenza taiwanese (anche per le conseguenti pressioni sulla leadership comunista) che porterebbe alla guerra[33]. Taipei desidera invece mantenere la propria indipendenza de facto, in un quadro in cui poche parole e diverse visioni possono risultare esplosive, e in cui lo status quo sembra rappresentare il migliore dei mondi possibili.

Di Piero Barlucchi