Cambiano le motivazioni ufficiali, ma l’agenda globale ha un comune denominatore: l’austerità. In Europa è la crisi del debito a giustificare tali misure dei governi. In Cina è invece la lotta alla corruzione la principale giustificazione “morale” del taglio agli sprechi della spesa pubblica. Un’analisi.
Non appena assunto l’incarico di segretario del partito e presidente del paese a marzo, Xi Jinping ha subito iniziato a lanciare una serie di campagne per combattere la corruzione interna al partito e abolire gli sprechi dell’imponente apparato burocratico cinese, chiedendo ai membri del Partito di condurre stili di vita più moderati. Questo perché il partito si ritrova ad affrontare una grave crisi di legittimità alimentata dai numerosi scandali che circondano l’establishment e che sono diventati – grazie anche alla diffusione dei servizi di microblogging come Weibo – una pericolosa fonte di malcontento tra l’opinione pubblica.
La tanto sbandierata volontà di combattere la corruzione non trova però riscontro nella risposta dei leader comunisti alle crescenti richieste per una maggiore trasparenza portate avanti da alcuni gruppi di attivisti e popolari blogger, che chiedono ai membri del partito di rivelare i loro patrimoni. Tali contraddizioni – inclusa la repressione di questi gruppi e l’arresto di alcuni dei loro esponenti – vengono interpretate dalla maggior parte degli analisti come un segnale che il partito sia, in realtà, semplicemente interessato a dare un’immagine più pulita di sé, riconquistando la fiducia ed il consenso della popolazione, per evitare di fare la stessa fine del Partito Comunista Russo, dopo la caduta del muro di Berlino.
Una lettura un po’ più azzardata di tali campagne potrebbe, però, anche far supporre che la nuova leadership voglia sfruttare il malcontento popolare – da un lato fomentandolo, dall’altro contenendolo e, se necessario, reprimendolo – nei confronti dell’apparato statale per realizzare quelle “importanti riforme politiche” spesso invocate, ma che continuano a dividere le fazioni interne al partito. Mossa questa che sarebbe sicuramente molto rischiosa, ma potenzialmente di grande efficacia strategica per compattare la “casta” ed uscire dallo stallo politico che ha, di fatto bloccato, le riforme nel decennio di leadership di Hu Jintao e Wen Jiabao .
In ambito economico, il nuovo premier Li Keqiang sta portando avanti un ampio programma di aggiustamenti strutturali per trasformare l’economia cinese, riconvertendola al consumo interno e abbandonando il modello – considerato da molti economisti e addetti ai lavori non più sostenibile – basato sui massicci investimenti statali e le esportazioni, che ha permesso alla Cina di diventare, nel giro di tre decenni, la seconda economia al mondo. Il governo si è mostrato determinato a promuovere tali riforme, che dovrebbero garantire una maggiore stabilità e sostenibilità nel lungo periodo, anche a costo di dover rinunciare ai livelli di crescita da capogiro ottenuti nel recente passato.
Molti economisti, sia cinesi sia stranieri, sottolineano inoltre la necessità di smembrare e privatizzare i grandi ed “inefficienti” conglomerati industriali statali che dominano i mercati interni e che stanno acquisendo posizioni di rilievo anche in quelli internazionali. Tali riforme rappresentano per gran parte un’attuazione del programma di aggiustamenti strutturali presentato nel rapporto “China 2030” – uno studio di matrice neo-liberista, realizzato congiuntamente dal FMI, la Banca mondiale e dal Development Research Center del Consiglio di Stato, un influente think-thank governativo – che esorta la Cina a completare la sua transizione ad economia di mercato.
La ricetta è sempre la stessa: liberalizzazioni, privatizzazioni, deregulation, maggiore apertura dei mercati (economici e finanziari). Quella stessa ricetta che più volte si è resa responsabile, secondo l’ex economista della Banca Mondiale Joseph Stiglitz, di creare e/o peggiorare le principali crisi economiche e finanziarie globali degli ultimi 40 anni.
Il mantra neo-liberista viene ripetuto anche nel caso del sistema bancario ombra cinese, che rischia di innescare una crisi finanziaria globale più grave di quella del 2008, con gli esperti – economisti che spesso lavorano per le grandi banche o per le istituzioni finanziarie internazionali – che suggeriscono di affrontare i rischi sistemici sempre più evidenti del sistema finanziario cinese non attraverso la definizione di regole più severe e rafforzando il ruolo di supervisore dello stato, ma promuovendo un lassaiz-faire sempre più sfrenato: meno controlli, meno regole e ulteriori liberalizzazioni, al fine di permettere il corretto funzionamento dei meccanismi di auto-regolazione dei mercati.
In un recente commento sul sistema bancario ombra cinese pubblicato dalla versione cinese del Financial Times, Zhu Haibin – capo economista della JP Morgan in Cina – suggerisce, ad esempio, che per risolvere il problema dei rischi connessi al settore bancario ombra è necessario accelerare la liberalizzazione dei tassi d’interesse. “L’accelerazione della liberalizzazione dei tassi d’interesse favorirebbe, fondamentalmente, l’eliminazione di alcuni dei rischi sistemici attualmente presenti nel sistema bancario ombra. Tale liberalizzazione include non solo l’abolizione dei controlli sui tassi d’interesse, ma anche l’abolizione dei limiti imposti al credito ed il controllo sulla sua allocazione”. Mentre, “l’intervento non appropriato dei governi locali può solo indebolire i meccanismi di auto-regolazione dei mercati e aggravare il problema degli azzardi morali da parte degli investitori”.
L’economista della JP Morgan sottolinea che risolvere i problemi legati al sistema bancario ombra non equivale ad eliminarlo completamente: “prestare attenzione e risolvere i rischi connessi al sistema bancario ombra non significa che bisogna sopprimerlo, così come liberalizzare completamente i tassi d’interesse non vuol dire che bisogna impedire” questo tipo di operazioni finanziarie. “Al contrario, promuovere la riforma del sistema finanziario ed aumentarne il grado di liberalizzazione implica che i capitali finanziari non bancari avranno uno spazio d’azione ancora più vasto”.
Tutte queste misure – politiche, economiche e finanziarie – nel loro complesso, lasciano presupporre la volontà della nuova leadership di aumentare lo spazio di manovra per la speculazione finanziaria, riducendo al contempo la spesa pubblica ed il ruolo dello stato nell’economia. Non mancano ovviamente gli oppositori a tali riforme all’interno del Partito comunista. Tuttavia, in un regime dove lo stato di diritto non è ancora sufficientemente sviluppato, chi è contrario al cambiamento rischia di dover fare i conti con accuse di corruzione. L’esempio più eclatante è, forse, lo scandalo che lo scorso anno ha coinvolto Bo Xilai – considerato un esponente della nuova sinistra cinese e promotore del cosiddetto “modello Chongqing” – la cui sentenza per il processo per “gravi violazioni disciplinari” – eufemismo per corruzione – dovrebbe essere resa pubblica domenica prossima.
Non ci sono elementi per sostenere che le epurazioni di influenti membri del partito, come Bo Xilai, avvengano sulla base di accuse infondate – la corruzione dei funzionari è un problema reale e molto diffuso in Cina -, ma la gestione poco trasparente di questi casi da adito alle speculazioni e fa pensare che l’approvazione a procedere del partito contro di essi abbia spesso anche, se non soprattutto, motivazioni di natura politica. Chissà se risulterà decisivo anche per la definitiva affermazione del neo-liberismo con caratteristiche cinesi.
* Piero Cellarosi, sinologo e “sinofilo”, è un esperto in sviluppo umano e sicurezza alimentare. Ha lavorato in un progetto finanziato dall’International Fund for Rural Development (Ifad) delle Nazioni Unite dal 2008 al 2009 come Project Adviser e Food Security consultant nel corso delle fasi svolte in Cina di design, sviluppo e testing del Multidimensional Poverty Assessment Tool. Ama la filosofia e le arti marziali cinesi.