Narrare l’Islam “normale”

In by Gabriele Battaglia

In reazione agli ultimi avvenimenti (da Charlie Hebdo a Copenhagen) qualcuno è tornato a difendere supposti valori "occidentali" incrollabili contro l’arretratezza e la barbarie dell’Islam. Eppure ci sono milioni di persone di fede islamica che vivono in modo totalmente pacifico, nel tentativo spesso difficile di integrarsi in paesi impreparati ad accoglierli come l’Italia. È giusto mettere loro indosso la stessa maschera "bigotta e barbuta" degli integralisti? Lo scorso 19 febbraio il Guardian ha pubblicato un lungo articolo di Christopher de Bellaigue intitolato "Stop calling for a Muslim Enlightenment".

Nel pezzo, de Bellaigue dà voce al crescente spaesamento che interessa la comunità musulmana mondiale davanti ai ripetuti appelli per una svolta "illuminista" dell’Islam provenienti dall’Occidente, in reazione all’escalation di orrore degli ultimi tempi (anni?) fatta di decapitazioni di massa dell’Isis, carneficina alla redazione di Charlie Hebdo, attentati a Copenhagen. Tutti episodi che, con l’inevitabile collaborazione dei media mainstream, vanno a costruire l’idea di Islam dell’opinione pubblica.

De Bellaigue fa partire i suoi ragionamenti da un episodio di vita quotidiana a Londra: una scolaresca va a lezione di nuoto in una piscina comunale e tra bambini e bambine di dieci anni che sguazzano in vasca con cuffia e occhialini ne salta all’occhio una, in acqua coi suoi compagni ma coperta gambe e braccia dal salwar kameez, il completo pantaloni e camicia di cotone usato correntemente dalla stragrande maggioranza della popolazione musulmana nell’Asia centrale e meridionale (che prevede due versioni, da uomo e da donna).

La bambina è evidentemente una britannica di seconda generazione, nata e cresciuta in una delle capitali multietniche del mondo, e la sua sola presenza in acqua assieme ai compagni, pur mantenendo l’eccezionalità estetica (non obbligatoria, secondo l’Islam) imposta dalla propria famiglia, incarna secondo de Bellaigue il continuo processo di negoziazione che i musulmani ingaggiano di fronte allo standard di modernità codificato in Occidente.

Dico standard poiché, secondo la vulgata corrente declinata in diverse sfumature di intolleranza (o mancanza di fantasia), il punto d’arrivo inevitabile delle auspicate trasformazioni dell’Islam non può che ricalcare la nostra personalissima esperienza occidentale: un ibrido in cui, non senza difficoltà, facciamo convivere le nostre radici cristiane con i valori repubblicani e illuministi post Rivoluzione Francese.

Sono "i nostri valori", ai quali le popolazioni islamiche dovrebbero aderire per salvarsi (e salvarci) dall’avanzata dell’estremismo islamico; valori talmente saldi e non negoziabili, ci piace ripeterci, che a più ondate nella Storia recente hanno meritato tentativi di "esportazione" dei quali oggi possiamo apprezzare ancora una volta il sostanziale fallimento osservando la disgregazione sociale e il caos che hanno preso il sopravvento, tra gli altri, in Afghanistan, Egitto, Libia, Siria.

Il collaboratore del Guardian nota come la presunzione di esclusiva del modello universale di modernità tipica dell’Occidente spazzi via dalla narrazione contemporanea dei cambiamenti nel mondo tutti gli esperimenti di modernità alternativa che interessano porzioni della Terra enormi, cresciute e prosperate nei secoli lungo binari paralleli rispetto alla nostra Storia. E che, a un certo punto, hanno vissuto l’incontro con l’Occidente grazie a scambi culturali e/o commerciali, fino a occupazioni militari ed esperienze coloniali.

Cita esempi mastodontici come Cina e India, che da almeno 20 anni stanno sviluppando una versione peculiare di modernità partendo da condizioni assolutamente uniche, affrontando a modo loro (tra imbarazzanti e talvolta incomprensibili chiusure protezionistiche ed enormi "passi in avanti") le sfide sociali e culturali imposte dalla globalizzazione.

Ma se l’appello a una Rivoluzione Illuminista raramente viene esteso con tanta veemenza ai due giganti d’Asia – fatte salve le tematiche di diritti umani e democrazia, ma riconoscendo comunque uno status di "work in progress" tutt’al più influenzabile, non sostituibile da un nostro manuale d’istruzioni per la modernità – per quanto riguarda l’Islam in molti pensano, a torto, che solo una sostituzione delle loro pratiche con le nostre possa portare al successo, a una cristianissima Salvezza.

De Bellaigue (classe 1971, formazione accademica da orientalista a Cambridge, corrispondente dall’Iran e dal Medioriente per numerose e prestigiose testate internazionali) oppone a questo luogo comune una serie di esperienze di "sovversione moderata", raccontando le storie dei primi mediatori culturali islamici che ebbero occasione di esplorare e confrontarsi col mondo Occidentale.

Parla di Mirza Muhammad Saleh Shirazi, studente iraniano spedito a Londra dal Principe Abbas Mirza per «studiare cose utili e riportarle a casa», riprendendo passi dei suoi diari dove emerge lo shock culturale di un giovane accademico persiano che non riesce a spiegarsi come mai le persone nel Regno Unito quando entrano in casa si levano il cappello e non le scarpe, come d’uso in Oriente.

Mirza Saleh, di ritorno in Persia, sarebbe diventato prima insegnante e poi editore, dirigendo e stampando un quotidiano. Il tutto senza rinnegare o abbandonare la propria Fede, ma plasmandola a suo modo secondo le cose che aveva imparato all’estero e, riadattate al contesto di casa, importate tra la sua gente, traducendo testi dall’inglese al persiano, scrivendo libri circa la storia e le tradizioni di quel posto esotico conosciuto come Europa.

Uomini e donne come Mirza Saleh, nel passato recente, si sono moltiplicati esponenzialmente, dando vita a una contemporaneità di Islam moderato che vive e prospera sia in Europa che nel resto del mondo.

Una contemporaneità della quale in Italia fatichiamo a renderci conto e con ancora più difficoltà riusciamo a raccontare, schiacciati da una narrazione dell’Islam che oscilla sempre tra i due estremi di oppressori e oppressi, tra al Qaeda e le donne col burqa, tra le torture dell’Isis e le frustate agli apostati sauditi, tra i contrabbandieri di uomini che mandano i migranti a morire in mare e quelli che invece ce la fanno, sopravvivono e arrivano sulle nostre coste.

Le storie di Islam che formano il nostro sentire comune sono solo storie di emergenza, una narrazione di eccessi che punta a una reazione indignata (donne che non possono guidare per legge in Arabia Saudita, il burqa) o terrorizzata ("siamo a sud di Roma" dell’Isis), in un colpevole appiattimento dell’universo multietnico e multiculturale islamico al denominatore comune di "i musulmani", tutti insieme nel calderone senza il beneficio del distinguo, ad esempio, tra indonesiani (musulmani) e pakistani (musulmani).

L’indiano e il cinese, nella nostra percezione dell’altro, godono del lusso di un’identità nazionale che li caratterizzi. Il malese, il marocchino, il bangladeshi no: sono tutti "musulmani", incasellati assieme ai bigotti barbuti dell’Islamic State.

Eppure c’è un mondo di modernità e normalità musulmana che ci circonda, evidente nei paesi anglosassoni dove il multiculturalismo postcoloniale fa convivere – con tutte le difficoltà del caso, non insormontabili – professionisti, famiglie e lavoratori musulmani coi loro corrispettivi non musulmani. Contesti dove sono possibili fenomeni di solidarietà rivoluzionaria come l’iniziativa #illridewithyou in Australia: in risposta agli ostaggi presi da un terrorista musulmano in un bar di Sidney, decine di migliaia di australiani si sono offerti di "scortare" i musulmani residenti nel paese, proteggendoli dalla minaccia di rappresaglie islamofobe.

Succede anche in India, dove la terza comunità musulmana al mondo (180 milioni di persone) convive col resto della popolazione in un grado di interconnessione sempre crescente, nonostante le spinte ultranazionaliste hindu di formazioni extraparlamentari vicine all’attuale governo del Bharatiya Janata Party (Bjp). Non mancano le discriminazioni, non mancano gli scontri anche sanguinosi tra comunità religiose – specie nell’India rurale – ma in generale l’esperimento del multiculturalismo moderno nella Repubblica indiana prosegue con successo.

Nelle città musulmani e hindu spesso sono indistinguibili, se non dal nome: si vestono allo stesso modo, frequentano sempre di più le stesse scuole (laiche) e condividono sempre più lo stesso ambiente di lavoro, guardano gli stessi film, ascoltano la stessa musica, aumentano i matrimoni interreligiosi e prima o poi – succederà, con tempi e modi che non mi sento in grado di predire – la differenza tra hindu e muslim per la maggioranza degli indiani non esisterà più. Sarà un problema superato, vecchio, come in Italia lo sono il divorzio e il preservativo, nonostante gli ultimi kamikaze del bigottismo cristiano.

Succede in Indonesia, primo paese musulmano al mondo, 269 milioni di abitanti previsti entro il 2020, quasi il 90 per cento dei quali di fede musulmana.

Il 22 luglio del 2014 il popolo indonesiano ha eletto il proprio presidente Joko Widodo: 53 anni, tratti somatici incredibilmente simili a quelli del presidente statunitense Barack Obama, metallaro sfegatato – adora Metallica, Megadeth e Napalm Death, e – ma guarda un po’ – musulmano. L’incredibile storia di Widodo, un mix prelibato di esotismo e pop che avrebbe potuto fare breccia anche solo nella categoria "strano ma vero" apprezzata dal pubblico, in Italia è stata raccontata molto poco. 

Eppure anche Widodo è musulmano, come lo sono i milioni di elettori che l’hanno votato e che, nel nostro immaginario collettivo, nella casella "Islam" non ci sono.

Succede addirittura in Pakistan, terra martoriata da scontri intercomunitari, attentati terroristici, un ventaglio di sigle dell’estremismo islamico che trovano terreno fertile nelle disparità sociali ed etniche (come i Talebani pakistani dell’attentato alla scuola di Peshawar), patria del premio Nobel per la pace Malala Yousafzai, scampata ai sicari talebani.

In mezzo all’inferno di un paese che ancora deve trovare la sua strada verso la normalizzazione (e l’impresa sarebbe più semplice se Cina, India e Occidente riuscissero a rifiutarsi di utilizzarlo via via come pedina spendibile nello scacchiere della geopolitica internazionale), nascono dei fenomeni di disarmante naturalezza e bellezza pop come Coke Studio, progetto musicale prodotto dall’artista pakistano Rohail Hyatt (formatosi tra Nat King Cole, Pink Floyd e musica tradizionale pakistana) in collaborazione con Mtv in cui numerosi artisti locali – interpreti di ghazal, qawwali, canti devozionali e repertorio folk – si esibiscono in studio in riarrangiamenti rock e fusion realizzati e suonati da strumentisti pakistani.

Le varie stagioni del programma sono letteralmente un inno alla realtà possibile di una modernità globalizzata con caratteristiche musulmane. Guardate ad esempio il video di Chori Chori, canzone folk reinterpretata da Meesha Shafi diventata immediatamente hit generazionale in tutta l’Asia meridionale, e mentre lo fate pensate che Shafi (cantante strepitosa in vestiti attillati, rossetto e tacchi) è una donna musulmana che di lavoro fa la cantante, la modella e l’attrice e per milioni di musulmani nel mondo vederla senza burqa, senza velo, vestita alla occidentale cantando una canzone d’amore in urdu è assolutamente normale.

Le sarebbe permesso passeggiare in quel modo nelle strade di Lahore o Peshawar? Credo di no. Ma il solo fatto che Shafi esista, canti e sia guardata su Youtube ogni giorno da centinaia di migliaia di giovani in tutto il continente (probabilmente in tutto il mondo), dovrebbe testimoniare l’esistenza innegabile di un altro Islam, numericamente imponente rispetto allo spauracchio estremista che continuiamo a raccontare, in cui si fa e ascolta musica, si studia, si lavora, si fa l’amore e si affrontano i problemi quotidiani dell’esistenza proprio come facciamo noi. Ognuno a suo modo.

Questo Islam normale – di cui Shafi e Widodo rappresentano l’apice estrema che diventa spettacolo – cresce in modo assolutamente pacifico tutto intorno a noi in Italia, conducendo un’esistenza silenziosa e insospettabile, ad esempio, nella comunità bangladeshi di Roma, dove migliaia di bambini e bambine frequentano le nostre scuole e si scontrano con un sistema dell’istruzione ancora impreparato a capire, conoscere e formare nuovi cittadini italiani in grado di negoziare le proprie tradizioni di provenienza con quelle assimilate nel paese d’arrivo.

Ma ci stanno lavorando, assieme alle proprie famiglie e assieme a noi, che nonostante la propaganda islamofoba di questi tempi bui siamo costretti ad aprire gli occhi di fronte alla faticosa normalità del diverso.

Come ci stanno lavorando gli studenti e i professionisti di origine nordafricana che, nonostante il terrore che corre sui telegiornali e sui giornali e che li impacchetta nella categoria fagocitante di "i musulmani", continuano a professare la loro Fede mentre sono al nostro fianco in coda dal panettiere, al cinema, ai concerti, in libreria, sui banchi di scuola, negli spogliatoi degli stadi, in manifestazione o al supermercato.

La guerra all’estremismo islamico, al di là dei massacri sul campo di battaglia, viene combattuta giornalmente anche e soprattutto da quei milioni di musulmani indonesiani, malaysiani, pakistani, egiziani, indiani, tunisini, algerini, nigeriani che conducendo una vita più normale possibile sperimentano e provano versioni inedite di compromesso tra le proprie tradizioni e le rivoluzioni sociali portate dalla modernità globalizzata.

E lo fanno, in assoluta maggioranza numerica nell’universo dell’Islam, raggiungendo risultati innegabili sia nei loro paesi che nei "nostri", che ormai sono anche i loro.

Nella narrazione raffazzonata dell’Islam che facciamo ogni giorno – e che contribuisce a formare l’idea di Islam che si deposita nell’opinione pubblica e che determina le nostre scelte, le nostre politiche e le nostre relazioni interpersonali – questi milioni di musulmani normali (non moderati, normali) non esistono, non li vediamo, fatichiamo a conoscerli, a raccontarli e a raccontarceli.

Prendere atto della loro esistenza e condividere la loro – nostra – guerra quotidiana potrebbe essere l’arma letale da opporre all’avanzata dell’estremismo, islamico o nazionalista che sia. E quando quella maggioranza imponente di musulmani normali prenderà il posto dei boia di Isis nel nostro immaginario collettivo, allora la guerra al terrore islamico (al nostro terrore dell’Islam) sarà quasi giunta al termine. 

[Scritto per East online; foto credit: nytimes.com]