Myanmar – Intervista a un ribelle Kachin

In Interviste by Simone

Il processo di democratizzazione del paese passa anche per la normalizzazione dei rapporti con la minoranza Kachin, sotto attacco da mesi da parte dell’esercito regolare birmano. Un diplomatico della Kachin Indipendence Organization racconta a China Files quali sono gli ostacoli alla pace rappresentati dall’intervento occidentale e dall’inazione di personalità simbolo come Aung San Suu Kyi.
Migliaia di studenti protestano per le strade di Yangon. Come i loro genitori nel 1988, si schierano contro decenni di regime militare, carenza di democrazia e diritti umani. La revisione della riforma dell’educazione approvata lo scorso settembre rappresenta solo il rinnovato pretesto per scendere in piazza. Gran parte della popolazione sta supportando la rivolta ospitando gli studenti nelle proprie case, mentre i monaci offrono cibo e i medici prestano le proprie cure gratuitamente.

Le proteste sono un argomento sensibile in un paese in cui la precedente giunta militare ha ripetutamente represso le manifestazioni di studenti e persino di monaci non violenti attraverso l’intervento dell’esercito, causando migliaia di morti. Qualche settimana fa, la delegazione UE responsabile dell’addestramento della polizia birmana alla gestione delle folle ha criticato la repressione delle proteste che ha portato all’arresto di 127 dimostranti e al ferimento di centinaia di essi.

Persino il premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi sembra non appoggiare le contestazioni, minacciando azioni legali contro i membri della Lega per la Democrazia che stanno supportando i dimostranti.

Nel frattempo, l’esercito birmano (Tatmadaw) ha nuovamente infranto il cessate fuoco, tornando ad attaccare le minoranze e ad occupare i loro territori. Dallo scorso novembre vengono quotidianamente rasi al suolo, bombardati e bruciati, numerosi villaggi sul suolo Kachin, uccidendo, stuprando e usando come scudi umani migliaia di civili. L’Onu stima che i rifugiati abbiano superato le centomila unità.

In questo atroce scenario le parole di Naw Tawng (nome di fantasia per tutelare l’anonimato dell’intervistato, nda), diplomatico della Kachin Independence Organization (Kio), echeggiano il dramma quotidiano da cui è afflitta la sua terra.

In questi giorni è in viaggio insieme ai suoi leader oltre i confini birmani, verso una destinazione segreta in cui si svolgerà il meeting di coordinamento delle minoranze coinvolte nelle trattative di pace.

Naw Tawng spiega che i gruppi collaborano prevalentemente su due fronti. Da una parte il Nationwide Ceasefire Coordination Team (Ncct) accumuna i leader delle varie minoranze in vista di negoziati con il governo. «Abbiamo firmato molti accordi, ma in gran parte non son stati rispettati. Lo scorso agosto ne firmammo uno che prevedeva, oltre al cessate il fuoco, un impegno da parte del governo al riconoscimento dei diritti di autodeterminazione delle minoranze».

Naw rivela come nei giorni seguenti, gli ufficiali governativi lo hanno contattato per ritrattare la volontà di rispettare l’accordo: «L’hanno fatto solo per impressionare la comunità internazionale, evitare le sanzioni e incentivare gli investimenti stranieri, per poi incolpare le minoranze del fallimento delle trattative allo scopo di perpetrare la loro pulizia etnica».

L’altro fronte di collaborazione tra le minoranze è lo United Nationalities Federal Council (Unfc) che comprende l’esercito congiunto composto da 12 differenti gruppi etnici armati. Tra le collaborazioni non vi è tuttavia una rappresentanza politica delle minoranze congiunta in parlamento pronta a partecipare alle elezioni del 2015. «Questo perché non siamo disposti ad accettare l’assurda Costituzione del 2008, che non è per niente democratica» spiega Naw Tawng.

Durante la sua visita in Myanmar, il presidente statunitense Barack Obama ha ammesso che vi sono evidenti «segnali di progresso» nella democratizzazione birmana. Ha poi invitato il presidente Thein Sein a riconsiderare la posizione delle comunità segregate dei Rohingya, vittime di un genocidio tutt’ora in corso, e a rivedere la costituzione per concedere al leader di opposizione di partecipare alle elezioni.

Senza dubbio il rilascio di Suu Kyi e la costituzione del 2008 hanno portato benefici allo sviluppo politico, ma il Myanmar è ancora molto lontano dal poter esser definito democratico come vorrebbe apparire. La Carta rivendica per esempio la libertà di opinione e di stampa, ma al tempo stesso utilizza un «linguaggio restrittivo che contravviene gli standard internazionali». Ogni notizia è prima verificata dal governo, i giornalisti continuano a subire incidenti mortali e ogni protesta è soppressa con la forza. La censura è un elemento prioritario della propaganda nazionalista del governo contro i gruppi minoritari.

«I media internazionali sono obbiettivi, ma la stampa nazionale spesso ci dipinge come dei terroristi» ha spiegato Naw, che sottolinea come sia il Tatmadaw a diffondere terrore istituzionalizzando tortura e stupro di massa come armi demoralizzatrici.

«A livello ufficiale cerchiamo ancora di negoziare con il governo per una convivenza in autonomia all’interno dell’unione, ma dopo quanto accaduto, a livello popolare il 99 per cento dei Kachin vuole l’indipendenza. Non ci sentiamo al sicuro, soprattutto al di fuori dei nostri confini. Nelle zone urbane possiamo anche passare inosservati, ma nelle zone rurali siamo in costante pericolo. Qualche settimana fa due giovani maestre ventenni Kachin che si trovavano nello stato Chan sono state stuprate, torturate e uccise dall’esercito birmano. Queste cose accadono di continuo senza ripercussioni per i colpevoli».

Nonostante la Lega di Suu Kyi sia l’unico partito in questo momento a rappresentare una reale speranza democratica per il Myanmar, le parole di Naw nei confronti del Premio Nobel sono molto dure: «Quello che nel mondo è stato visto come un simbolo di speranza per il Myanmar, Aung San Suu Kyi, non lo è per noi, almeno non più. Suo padre, Aung San, fu il fondatore dell’esercito birmano che oggi combattiamo. Sua figlia non fa parte delle minoranze, né sembra avere reali progetti per i gruppi etnici, e se li ha noi non li conosciamo. Non so se vuole riformare la costituzione per garantire i nostri diritti o per garantire il suo diritto di poter essere eletta. Purtroppo ora è un burattino nelle mani del governo, senza reale influenza e strumentalizzata come simbolo di progresso democratico, quando in realtà per noi nulla è cambiato».

Oggi l’ internazionalizzazione della questione ha visto intervenire Cina, Regno Unito, Us e ONU nel ruolo di mediatori, attori che, secondo molti diplomatici Kachin, perseguendo i loro interessi politici ed economici hanno spesso finito per esacerbare il conflitto piuttosto che placarlo.

«Devono capire la natura del governo birmano, il quale manipola la comunità internazionale» sostiene Naw. «Nulla è cambiato dal passato se non il fatto che ora il governo non subisce più le stesse sanzioni internazionali per l’abuso di diritti umani, mentre continua a perpetrarli, accusando il Kia e le minoranze di avere la colpa di fronte alle istituzioni. La pace per il nostro governo significa solo firmare un accordo per apparire democratici e poi infrangerlo con la brutalità del loro esercito. Finché proverà a risolvere i problemi attraverso mezzi militari non potrà mai esserci pace. Per noi l’unica strada è il dialogo politico attraverso la negoziazione, per loro è il tentativo di sterminarci. Chi pensate siano i veri terroristi?»

[Foto credit: pulitzercenter.org]

*Gian Luca Atzori è laureato in Lingue e Culture Orientali alla Facoltà di Lettere, Filosofia, Scienze Umanistiche e Studi Orientali della Sapienza con una tesi in Religione e Filosofie dell’India intitolata "Comunitarismo in Cindia: risorsa democratica e pluralistica di riflessione comune sull’etica globale". Ha proseguito i suoi studi a Pechino tra la UIBE e la BFSU e ora si trova alla Tsinghua University, specializzandosi in "Filosofia politica e relazioni internazionali".