Myanmar al voto: la distopia del XXI secolo cerca un futuro

In Asia Meridionale, Asia Orientale, Sud Est Asiatico by Lorenzo Lamperti

Mentre tutto il mondo segue con attenzione l’interminabile coda delle presidenziali Usa 2020, c’è un altro paese che va alle urne: il Myanmar. Domenica 8 novembre sono infatti in programma le elezioni generali, che la consigliere di stato Aung San Suu Kyi ha confermato nonostante le numerose richieste di rinvio da parte degli altri partiti a causa della pandemia da Covid-19. Se in America il voto ha assunto le sembianze di un thriller pieno di colpi d’azione, per quanto riguarda la nazione del Sud-est asiatico si potrebbe parlare di film distopico, come suggerito dal sottotitolo di “L’altra storia della Birmania – Una distopia del XXI secolo”. Si tratta di un (bellissimo) libro scritto da Thant Myint-U e appena pubblicato da add, realtà editoriale che rappresenta un punto di riferimento per gli studiosi e appassionati di Asia in Italia.

Perché distopia? Il libro di Thant Myint-U offre uno straordinario viaggio alle radici dei problemi birmani, dalla colonizzazione britannica agli scontri etnici e razziali, dal percorso socialista al regime militare, fino alla visione manichea promossa dall’Occidente in cui esistono solo “buoni” e “cattivi”, “santi” e “diavoli”. Approccio semplificatorio e riduttivo, spesso adottato quando si osservano le complesse dinamiche dei paesi dell’Asia sud orientale, che ha ripercussioni concrete sul posizionamento internazionale e sulle dinamiche interne di Myanmar.

Alle elezioni dell’8 novembre ci si aspetta una netta affermazione della National League of Democracy (Nld) di Aung San Suu Kyi, ma il clima è completamente diverso rispetto a quello di cinque anni fa. Nel 2015, la premio Nobel per la Pace era ancora considerata una paladina dei diritti umani. Sin dall’inizio degli anni Novanta, gli Stati Uniti e i paesi occidentali in generale avevano identificato in lei l’incarnazione dell’aspirazione democratica birmana. Da Bill Clinton a George W. Bush, da Barack Obama a Hillary Clinton passando per Tony Blair e le star di Hollywood, tutti salutavano con entusiasmo la parabola dello “stato canaglia”, come lo definì Condoleeza Rice, che si redimeva liberando la sua figliol prodiga (il cui padre, Aung San, è ancora celebrato come uno dei padri della patria) e facendola partecipare alle elezioni, aprendo nel frattempo il proprio mercato al capitalismo globale.

In questi cinque anni, però, è successo qualcosa. Le tensioni etniche sono riesplose, in primis quelle con i musulmani rohingya. Le violenze sono tornate, il Tatmadaw (l’esercito birmano) è tornato nel mirino delle cancellerie internazionali e della Corte internazionale di giustizia dell’Aja che lo accusa di genocidio. E Aung San Suu Kyi è finita sul banco degli imputati per la sua “mancata presa di distanza”. Lei che ha sempre cercato il dialogo coi militari, lo ha ottenuto e lo porta avanti con lo scopo di quella modifica costituzionale che le permetterebbe di diventare presidente e di risolvere l’attuale ibrido civile-militare che al momento governa il paese. A patto, però, di risolvere le antiche dispute con i gruppi etnici e le milizie armate. Obiettivo non raggiunto, dopo il fallimento della cosiddetta “Panglong del XXI secolo“, la conferenza di pace con le minoranze organizzata nel 2017 che non ha portato a risultati concreti.

Ancora una volta, il Myanmar è tornato nella squadra dei “cattivi”. Niente più visite, niente più post glam sui social, niente più targhe di Aung San Suu Kyi a Oxford. Anche a livello interno, c’è qualche disillusione per la gestione personalistica del partito da parte di Aung San Suu Kyi che, sottolinea il libro di Thant Myint-U, ha sciolto alcune istituzioni sorte durante le aperture democratiche degli anni precedenti (una su tutte, il Myanmar Peace Center) per circondarsi di fedelissimi.

La fiducia, insomma, non c’è più. La fiaba edificante che si era costruita intorno alla Birmania è tornata una brutta storia. In cui trovano spazio anche Cina e India, in competizione per aumentare la propria influenza su un paese che è a metà strada tra i due giganti asiatici.

Tutto questo viene raccontato, in modo dettagliato e appassionante, dal libro di Thant Myint-U. Un lavoro fondamentale (la cui produzione è stata supportata da T.wai – Torino World Affairs Institute) di cui China Files offre, per gentile concessione di add editore, un estratto dall’introduzione.

All’inizio dello scorso decennio la Birmania era sulla cresta dell’onda. Mano a mano che i generali sembravano rinunciare al potere, tutti, almeno in Occidente, avevano cominciato a credere che il Paese fosse nel pieno di una trasformazione sbalorditiva, dalla più terribile delle dittature a una democrazia pacifica e fiorente. Barack Obama, Bill e Hillary Clinton, Tony Blair e decine di altri leader mondiali, passati e presenti, arrivavano in rapida successione per partecipare al solenne cambiamento. Si revocavano gli embarghi commerciali e si promettevano miliardi di dollari di aiuti per recuperare il tempo perduto. Con George Soros in testa, i principali top manager del mondo affollavano con i loro jet privati il piccolo aeroporto di Rangoon, desiderosi di investire nel nuovo mercato di frontiera dell’Asia. Fino al 2016 si erano uniti alla mischia Angelina Jolie, Jackie Chan e altre star, mentre il turismo esplodeva e sembrava giunta l’ora che il premio Nobel Aung San Suu Kyi, da poco libera dopo anni di arresti domiciliari, governasse finalmente il Paese.
Ma nel 2018 lo stato d’animo sarebbe diventato fatalmente tetro. Una nuova unità combattente, l’Arakan Rohingya Salvation Army (ARSA), aveva attaccato decine di posti di blocco nell’estremo ovest del Paese, e ne era seguita una violenta risposta da parte dell’esercito birmano. In seguito agli scontri, diverse centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini, quasi tutti appartenenti alla minoranza musulmana dei rohingya, scappavano nel vicino Bangladesh, raccontando storie orribili di stupri e massacri. La Birmania si trovava adesso sul banco degli imputati, accusata di genocidio e crimini contro l’umanità.
Nel settembre 2018 il consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite si riuniva a New York per discutere possibili misure e ascoltare un appassionato discorso dell’attrice Cate Blanchett, che aveva visitato gli immensi campi profughi dei rohingya ed era la prima star del cinema a parlare di fronte al più importante organo di sicurezza del mondo. Ad appena due anni dalla revoca delle ultime misure punitive, Stati Uniti ed Europa imponevano nuove sanzioni, e la stessa Aung San Suu Kyi, accusata di non fare abbastanza a favore dei rohingya, finiva nel mirino delle critiche di quelli che un tempo erano stati fedeli alleati nella comunità dei diritti umani. I vecchi amici – Bob Geldof, il Dalai Lama, l’arcivescovo Desmond Tutu – si dicevano delusi per la sua inerzia, e il college che aveva frequentato, il St. Hugh di Oxford, toglieva il suo ritratto dalla galleria degli allievi illustri per riporlo in un magazzino. Non volendo arrivare a tanto, il Canadian Museum for Human Rights teneva il ritratto nella «Galleria dei Canadesi Onorari» ma si premurava di abbassare l’illuminazione.
Arrivavano altre brutte notizie. I colloqui di pace che sin dal 2012 erano stati il cavallo di battaglia del lodevole processo di riforme birmano si erano quasi arenati, mentre divampavano nuovi combattimenti sulle montagne settentrionali. L’economia, che nel 2014 aveva avuto la crescita più alta del mondo, doveva fare i conti con preoccupanti venti contrari. Gli investimenti colavano a picco, diminuiva drasticamente la fiducia dei consumatori e aumentavano i timori di una crisi bancaria. Nel 2016 le guide Fodor’s indicavano la Birmania come una delle destinazioni più attraenti del mondo. Nel 2018 il Paese finiva nella top ten dei posti da evitare.
Che cos’era successo? Per decenni la storia del Paese era apparsa come una lotta manichea fra i generali al potere e un movimento a favore dei diritti umani e della democrazia liberale.
Ma era diventato molto difficile far combaciare questa vecchia storia con i recenti sviluppi. Possibile che il mondo avesse completamente frainteso la Birmania?
Fino a non molto tempo fa pochi credevano nella possibilità di un cambiamento. Il Paese sembrava congelato nel tempo, governato com’era da una giunta di malfattori che sarebbe rimasta per sempre al potere. Invece le cose sono cambiate, i prigionieri politici sono tornati in libertà, i mezzi d’informazione non sono più censurati e Internet non ha più limiti.
Le previsioni si sono ribaltate, e molti, sia in Occidente che in Asia, hanno presto benedetto la «transizione» che si andava profilando. Nel 2012 Aung San Suu Kyi entrava in Parlamento, dopodiché nel 2015 guidava il suo partito verso una schiacciante vittoria in occasione delle prime elezioni libere e
regolari per un’intera generazione di birmani. Se fino ad allora qualsiasi possibilità di progresso veniva respinta in blocco, adesso gli osservatori consideravano il progresso inevitabile.
Le notizie discordanti – ora uno scontro etnico, ora un conflitto tra esercito e ribelli – si liquidavano presto come questioni di poca importanza rispetto alla storia principale. Una storia perfetta, un balsamo indispensabile in giorni in cui la primavera araba cedeva il passo a una violenza estrema. Almeno in Birmania si dipanava una storia edificante, che sembrava avviarsi a un giusto epilogo.
Poi quella storia edificante è andata in frantumi.
(…)
In un certo senso la Birmania somiglia a parti dell’Europa e del Nord America nel XIX secolo: un miscuglio febbrile di nuove libertà e nuovi nazionalismi, capitalismo sfrenato, nuove ricchezze e nuova povertà, città e baraccopoli che spuntano come funghi, governi eletti, popoli esclusi e violente guerre di frontiera; uno specchio del passato, turbo-esasperato da Facebook e dalla vicina potenza ad alta industrializzazione, la Cina.
(…)
Su un palcoscenico così remoto e vulnerabile, va in scena un copione ingarbugliato che comprende alcuni dei problemi più scottanti della contemporaneità, dall’aumento delle disuguaglianze all’ascesa dell’etno-nazionalismo, senza contare il mutamento delle opinioni su razza e identità, fino a migrazioni, disastri ambientali e cambiamento climatico. Per l’onu e per l’Occidente la Birmania doveva essere il progetto democratico per eccellenza degli anni Novanta e Duemila. Nessuno si è mai chiesto se la democrazia (così come la concepisce la maggior parte dei Paesi occidentali,
vale a dire come sinonimo di competizione fra partiti politici, media liberi e libere elezioni) fosse la ricetta giusta, in parte perché era «il popolo» birmano a chiedere democrazia, in parte perché si trattava dell’epilogo naturale per una tirannia che nessuno era in grado di difendere con argomenti ragionevoli. Fino al 2010, più andavano profilandosi le forme della democrazia, più prendeva piede la convinzione di assistere a un progresso.
Mentre il percorso verso la democrazia liberale sembrava garantito, cresceva la convinzione che i liberi mercati avrebbero presto conquistato terreno, aprendo le porte al capitalismo globale. Ma poi, quando si sono messe in fila per studiare quello che speravano essere un mercato nuovo e proficuo, le
multinazionali si sono accorte che in Birmania un certo tipo di capitalismo era già in atto, stabile e strettamente connesso alla Cina.
Che un giorno le istituzioni democratiche attecchiscano in Birmania non è impossibile. Ed è tutt’altro che impossibile che il capitalismo globale sconfigga i suoi rivali. Potrebbe perfino superare le più rosee aspettative: far crescere l’economia a passi da gigante e rimodellare l’immagine che le altre società asiatiche hanno della Birmania.
Ma bisognerebbe chiedersi se è davvero auspicabile, oltre che sostenibile, che anche in Birmania si realizzi la vita del consumatore asiatico del XXI secolo. (…) A plasmare la Birmania sono state grandi forze e grandi questioni. La sua storia, che racconterò nelle pagine a seguire, è una storia che parla di razza e capitalismo, nonché del tentativo di instaurare la democrazia. Vi compaiono individui che hanno tramato, spinto e armeggiato per porre fine a cinquant’anni di strapotere dell’esercito e che per questa ragione si trovano a lottare mostrando le proprie profonde cicatrici ma con inesauribile energia. Vi compaiono anche birmani che vivono lontano dai palazzi del potere e hanno sopportato gran parte dei dolori del Paese, soffrendo e arraggiandosi per sopravvivere in condizioni impossibili. Ed è una storia che racconta anche di governi stranieri che hanno
contribuito a dare forma alla traiettoria birmana, perlopiù in buona fede, e talvolta con conseguenze disastrose. Buoni e cattivi si presentano spesso sotto mentite spoglie.
Il libro si concentra soprattutto sugli ultimi quindici anni, dall’apice della dittatura, attorno all’alba del nuovo millennio, fino a oggi. Ma l’eco del passato più lontano si fa sentire sempre più forte. Dunque, partiamo dal principio.

Continua su “L’altra storia della Birmania – Una distopia del XXI secolo” di Thant Myint-U (add editore)