Offrire servizi bancari nel pieno rispetto della legge islamica, la sharia, si può. E questa possibilità sembra interessare non solo chi si professa di fede musulmana. Ma anche, e soprattutto, un numero crescente di consumatori laici o di altre confessioni. Non c’è solo chi mette da parte i soldi di una vita per il pellegrinaggio alla Mecca. In Malaysia, ad esempio, c’è chi si compra la macchina nuova e chi ottiene prestiti per comprarsi una casa in periferia: sempre più persone – soprattutto di fede non musulmana – sono attratte dalla finanza islamica.
Punti di forza del fare banca con “caratteristiche islamiche” sono prestiti e mutui. La legge islamica, sharia, permette ai fedeli di chiedere denaro a credito per finanziare la propria attività commerciale – a patto che non abbia a che vedere con pornografia o carne di maiale – o per acquistare beni durevoli. A chi lo concede, però, da Corano, è proibito esigere interessi.
Così a comprare il bene è la stessa banca, mentre chi ottiene il prestito può scegliere se pagare tutto a un prezzo maggiorato o pagare a rate con una quota fissa – detta murabahah – versata al creditore per l’acquisto del bene.
Lo stesso schema si applica al prodotto per eccellenza dell’ “Islamic banking”: il sukuk, l’equivalente del bond. Chi possiede un sukuk tecnicamente non presta denaro a chi lo ha emesso, ma possiede una quota nominale del denaro speso per il suo acquisto. Il profitto arriva direttamente dall’asset o dalle quote “d’affitto” che l’emettitore del bond versa all’acquirente.
Tra il 2002 e il 2012 l’emissione di sukuk , ricordava a settembre di quest’anno l’Economist, è aumentata del 35 per cento annuo, in particolare da parte di Stati – tra cui la stessa Malaysia che detiene il primato per emissione di sukuk sovrani – e gruppi aziendali. Il volume totale è passato da 4 miliardi a 83 miliardi di dollari.
Quello dell’“Islamic Banking” è un settore che su scala mondiale vale, secondo una stima recente, circa 2mila miliardi di dollari. Secondo una previsione citata, entro il 2018, il mercato dei prodotti e servizi bancari in accordo con la legge islamica varrà quasi 3,5 mila miliardi di dollari.
L’agenzia Moody’s, citata ancora dall‘Economist, aveva definito il 2014 un anno “di svolta” per la finanza islamica. Ciò che a molti appare chiaro è che da fenomeno “esotico” essa si sta trasformando in un “fenomeno globale”.
Oggi gran parte della finanza islamica si fa in Iran, Arabia Saudita e Malaysia. Tuttavia sempre più banche “tradizionali” stanno pensando di aprire interi rami d’azienda che si occupino di finanza islamica.
È il caso ad esempio del colosso giapponese Mitsubishi UFJ. Accordatasi con Export-Import Bank of Malaysia (Exim Bank) su un prestito in materie prime, Mitsubishi ha optato per una soluzione in murabahah, piuttosto che per un prestito tradizionale. A riprova del successo del modello, il ramo malaysiano di Mitsubishi ha oggi trenta impiegati nel suo dipartimento di finanza islamica, il triplo di quanti ne avesse cinque anni fa.
La Malaysia – dove nel 1983 aprì la prima banca islamica – punta a essere locomotiva del cambiamento. Il trend positivo del giro d’affari delle banche islamiche qui non è passato inosservato: la Banca centrale di Kuala Lumpur ha infatti annunciato l’intenzione di portare gli asset delle banche islamiche dal 20 al 40 per cento del totale nazionale entro il 2020.
Basti pensare che il 40 per cento delle operazioni di Malaybank, il primo gruppo bancario malaysiano, scrive il magazine economico giapponese Nikkei Asian Review, sono di finanza islamica. E già si parla della creazione di una “megabanca islamica” che unirebbe la seconda e la quarta banca nazionale.
Progetti ambiziosi, che provano oggi a rispondere alle esigenze di accesso al credito in paesi in via di sviluppo con una scarsa tradizione bancaria, e lanciare un modello utile anche nei paesi del Nord del mondo, dove da anni il sistema bancario è in crisi.
[Scritto per Lettera43; foto credit: africanbusinessmagazine.com]